Cascina, 18 settembre 2025
Amici, amiche, fratelli, sorelle,
Perché questa sera siamo qui? Perché non potevamo restare tranquilli nelle nostre case, seduti sulle nostre comode poltrone, come se ciò che vediamo scorrere sui nostri schermi fosse solo una notizia tra le tante, qualcosa che riguarda altri, ma fortunatamente non noi. Siamo qui perché quelle immagini non sono immagini, fake news, ma fatti che ci inquietano, che ci scuotono e ci strappano all’ordinarietà delle nostre esistenze, siamo qui perché – che lo accettiamo o no – quell’ordinarietà non esiste più e abbiamo bisogno di ritrovarci insieme per decidere verso quale meta incamminarci.
Chi siamo noi? Non siamo i buoni, non siamo i giusti, siamo semplicemente la gente, un popolo di uomini e donne che hanno la fortuna di vivere in Italia, di far parte dell’Unione Europea, di essere protetti da uno Stato di diritto, dai valori espressi in una Costituzione. Ma questa fortuna, questo privilegio ci rende, o almeno dovrebbe renderci sensibili alla sorte di chi non ne gode, di chi, al contrario, non ha più nessun diritto da far valere, neppure il più elementare diritto alla vita, a esistere, ad avere qualche metro quadrato di terra su cui appoggiarsi. Se non sentissimo in noi alcuna commozione, alcuna compassione per chi sta soffrendo e subendo ingiustizie di questa portata, allora non saremmo degni della condizione privilegiata di cui godiamo.
Non siamo i giusti che condannano gli ingiusti. Siamo i fragili, i deboli esposti ogni giorno alla tentazione di cadere, di cedere alla violenza, di diventare anche noi indifferenti all’altro, di dimenticarlo semplicemente per affermare noi stessi. Siamo esposti alla tentazione di seguire il cattivo esempio dei potenti della terra, che ci insegnano che essere forti significa schiacciare l’altro, il diverso, l’avversario, insultandolo, demonizzandolo e finalmente sopprimendolo.
Siamo qui perché siamo piccoli, e i piccoli hanno una voce sottile, che ha bisogno di unirsi a tante altre voci per diventare coro. Coro non vuol dire una voce assordante, un urlo bestiale che sovrasta la voce dell’altro e la mette a tacere. Coro vuol dire voce di un popolo che si unisce ed esprime ciò che palpita nel cuore di ciascuno. È un coro di essere umani, di uomini e donne che si tengono stretti gli uni agli altri per non lasciarsi trascinare dall’onda di violenza, di arroganza, di prepotenza, da questo uragano che minaccia di devastare non solo e non tanto le nostre case e le nostre città, ma prima ancora le nostre anime, la nostra ragione, la nostra capacità di amare e sentire compassione.
Se dovessi dare un testo da recitare a questo coro, non troverei di meglio che quello che il vangelo di Luca mette in bocca a una donna, piccola, insignificante, Mariam di Nazareth di Galilea, che canta le opere meravigliose del suo Dio dicendo: «Ha spiegato la potenza del suo braccio, ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore, ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili, ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote».
Mi piace pensare che noi siamo come quella piccola donna, quella ragazza del popolo, “disarmata e disarmante”. È una ragazza povera, umile, ma i suoi occhi sono coraggiosamente rivolti verso l’alto, verso la fonte della luce e della speranza. Così mi piacerebbe che fossimo anche noi, riuniti questa sera per chiedere pace, con lo sguardo non perso nel buio, non imprigionato dall’oscurità del male, ma libero di innalzarsi e di fissarsi sulla vera forza che guida e regge la storia. È lo sguardo di chi non adora gli idoli, di cui ha constatato la falsità, ma pone la sua fiducia nel Dio vivo e vero, a cui solo appartiene il senso e il destino della storia. Perché la direzione dello sguardo non dipende dagli occhi, ma dal cuore.
Ma dov’è il nostro cuore? Forse si è impaurito e ha cercato protezione dentro una scatola fragile, che gli impedisce di vedere, ma non di essere visto. Ma nessuna scatola, nessun involucro protettivo e isolante ci salverà. Permettetemi di concludere con un testo corale di un grande poeta del Novecento, Thomas Eliot. È la Roccia, che parla, simbolo della Chiesa, o meglio di ciò su cui la Chiesa si fonda:
Il destino degli uomini è infinita fatica,
Oppure ozio infinito, il che è anche peggio,
Oppure anche un lavoro irregolare, il che non è piacevole.
Ho pigiato da sola l’uva nel torchio, e so
Che è faticoso esser davvero utili, rinunciando
Alle cose che gli uomini ritengono felicità, cercando
Le buone opere che restano oscure, accettando
Con viso fermo quelle che arrecano ignominia,
L’applauso di tutti o l’amore di nessuno
Tutti son pronti a investire denaro, ma i più
Si aspettano i dividendi.
Io vi dico: Rendete perfetta la vostra volontà.
Vi dico: non pensate al raccolto
Ma solo alla semina giusta.
Ecco, carissimi, credo che siamo qui per questo: non per raccogliere frutti che non ci sono, ma per seminare il seme giusto, quello che cresce lentamente, l’unico da cui è possibile attendersi frutti.
