(Ez 37, 1-14; Sal 50; Rm 5, 1-11; Gv 7, 37-39)
Cattedrale di Pisa – 7 giugno 2025
Mi pare bello e ricco di significato che questa nostra veglia si stia svolgendo come un cammino. In esso ciascuno di noi può riconoscere il proprio cammino personale di vita e di fede, ma inserito nel cammino comune di un popolo, il popolo di Dio pellegrinante nella storia. È una gioia e una ricchezza poter camminare questa sera anche con i fratelli delle altre chiese cristiane, uniti dalla stessa fede, proclamata 1700 anni fa a Nicea. Questa fede ci unisce molto più di quanto ci separino altre differenze confessionali, ma soprattutto questa fede ci abilita a essere Chiesa, sacramento di salvezza per il mondo, e ci rende capaci di portare al nostro mondo un annuncio di speranza. Il cammino che facciamo in questa veglia non lo facciamo solo per noi. Noi camminiamo per questo mondo che Dio ha tanto amato da dare per esso il suo Figlio Unigenito. Questa storia così ferita e travagliata anche noi siamo capaci di amarla nella misura in cui i nostri cuori si svuotano di egoismi, durezze e discordie e si lasciano riempire dallo Spirito di Dio. Per questo lo invochiamo insieme, con umiltà e con fiducia di figli, che sanno di essere ascoltati dal Padre. Lo invochiamo e lo attendiamo come un dono, anzi come il “datore di doni”, che sono inaccessibili alle nostre forze e tuttavia indispensabili per essere davvero vivi.
Il nostro cammino è cominciato dal Camposanto, dove abbiamo ascoltato la profezia di Ezechiele sulle ossa inaridite (Ez 37,1-14). Il punto di partenza e la parola ascoltata ci hanno disposto nella giusta prospettiva per vivere questa veglia. In effetti, il cammino che stiamo percorrendo simbolicamente in questa veglia è un cammino che va dalla morte alla vita. Non si tratta della morte e della vita in senso biologico. Anche Ezechiele non parla della morte fisica, ma della morte del popolo in quanto popolo. Il popolo di Dio si è ridotto a un mucchio di ossa scomposte e inaridite. È scomparsa la forza che lo teneva unito, l’identità che gli dava un volto e la speranza che gli indicava una meta verso cui indirizzare i suoi passi. Cari fratelli e sorelle, se guardiamo a noi stessi, alle nostre comunità, alle nostre famiglie, ai nostri Paesi non percepiamo spesso i segni, le minacce di una simile morte? Non dobbiamo aver paura di riconoscerlo. Non dobbiamo fare come i falsi profeti che – sempre secondo Ezechiele – «ingannano il mio popolo dicendo: “Pace!”, e la pace non c’è» (Ez 13,10). Guai, in effetti, a quel popolo che se ne sta tranquillo e in pace quando si va dileguando la memoria del passato, quando si va sgretolando la base di valori e motivazioni su cui poggia il suo presente, quando si va oscurando la visione del futuro. È di fronte a questo inaridirsi della vita che Dio dice al profeta: Profetizza su queste ossa! E la profezia diventa efficace: il popolo riprende vita. È interessante perché il testo biblico parla di due tappe successive: in una prima tappa si ricostituisce la struttura del corpo, le ossa si avvicinano, si ricompongono, i nervi e la carne ricrescono e su di essi si stende la carne. E tuttavia non c’è vita in questo corpo ricostituito. È necessaria una seconda profezia, indirizzata allo Spirito, perché il corpo riviva, si rimetta in piedi e riacquisti la forza di un esercito grande e sterminato. Meditando su questo brano biblico, mi viene da pensare: è un po’ quello che succede alle nostre parole e ai nostri discorsi. Sono come le ossa inaridite. Possiamo metterli in ordine, esprimerli in forma grammaticalmente e dottrinalmente corretta. E tuttavia questo non basta perché siano vivi e soprattutto vivificanti, capaci di mettere in moto la vita, la storia. I nostri discorsi sono spesso ben composti, ben ordinati, ma non riescono a infrangere la barriera invisibile che li separa dalla vita. C’è bisogno di una seconda profezia: Profetizza allo Spirito, figlio dell’uomo!
Che cosa vuol dire “profetizzare allo Spirito”? A me pare che un’indicazione chiara ci venga dal brano della Lettera ai Romani, che abbiamo ascoltato come seconda lettura (Rm 5,1-11). Paolo ci parla di «tribolazioni, pazienza e virtù provata (o, forse meglio, prova della virtù)». È il cammino in cui la parola entra nella storia, ne patisce le opposizioni, le lotte, le contraddizioni. Ma proprio così la va assumendo in tutto il suo spessore, ne porta il peso, ma anche la illumina dall’interno, dandole senso, riorientandola verso la sua meta di salvezza. Per questo Paolo dice che tribolazioni, pazienza, prove conducono alla speranza che non delude. La speranza non è un punto di partenza, non è un’affermazione di principio, una facile dichiarazione di ottimismo della volontà. È la conclusione di una storia di amore, è il punto di vista di chi ha amato fino alla fine e sa che quell’amore non passa e non delude.
Questa storia è innanzitutto la storia di Gesù, del Figlio di Dio fatto uomo, morto e risorto per noi. Ma quella storia può diventare anche la mia e la nostra storia perché il soffio vitale, il respiro che l’ha animata e percorsa ci è stato donato. È lo Spirito di Gesù che non solo ci ricorda quella storia, non solo ci rende partecipi dei suoi benefici, ma ci rende uomini e donne capaci di vivere allo stesso modo. Lo Spirito è un dono che vuole trasformare anche noi in dono per gli altri. Proprio come Gesù ci ha detto nel brano del Vangelo che abbiamo ascoltato (Gv 7,37-39). Lo Spirito non è solo la fonte a cui ci si può dissetare. Chi beve dello Spirito diventa da assetato fonte di acqua viva per gli altri: «dal suo grembo sgorgheranno fiumi di acqua viva». Per questo lo Spirito è insieme il compimento della salvezza donataci dal Signore Gesù e l’inizio e il fondamento della missione della Chiesa. Preghiamo insieme, fratelli e sorelle, perché la Chiesa riparta nel suo cammino missionario con la forza e il respiro dello Spirito: Vieni, Spirito Santo, vieni fonte viva, irriga questa nostra carne inaridita, fecondala perché possa portare i tuoi frutti di giustizia, verità e santità.
