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Omelia di Pentecoste 2025

(At 2, 1-11; Sal 103 (104); Rm 8, 8.17; Gv 14, 15-16.23b-26)
Cattedrale di Pisa 8 giugno 2025

«Io pregherò il Padre» ci ha detto Gesù nel Vangelo di questa solennità di Pentecoste. Noi oggi riceviamo lo Spirito perché Lui, Gesù risorto e asceso al cielo, prega il Padre per noi. E lo Spirito porta in sé la forma, la configurazione di questa relazione tra il Padre e il Figlio da cui procede ed è inviato a noi.

Chi è lo Spirito? La sua identità è difficile da definire. Noi siamo abituati a concepire l’identità come affermazione di sé, come nome che esprime l’essere di una persona, al quale corrisponde un singolo volto. Ma lo Spirito non esiste in sé, è una persona in molte persone, da lui unite in un vincolo di comunione. Lo Spirito è Colui che rende possibile dire “noi”, non solo nella Chiesa, ma in ogni realtà umana. Non si tratta del “noi” che è in realtà dilatazione totalitaria dell’io, che si impone all’altro sopprime la specificità e lo assimila a sé. Dovunque da un io e un tu diversi e ben distinti sorge un noi comunitario, nel quale la diversità non genera conflitto, ma incontro e scambio reciproco, là è all’opera lo Spirito. Per questo possiamo dire che lo Spirito è il dono dei doni, ossia il dono che permette di offrire se stesso in dono all’altro e di ricevere l’altro come dono.

Gesù ha vissuto di questo Spirito: si è costantemente offerto in dono all’altro (al Padre prima e a ogni uomo poi) e ha ricevuto l’altro come dono. In effetti, a pensarci bene, le due cose sono logicamente connesse. Solo quando ci doniamo all’altro, senza riservare nulla per noi stessi, senza difendere gelosamente il nostro io come proprietà privata, siamo capaci, o meglio: capienti per accogliere l’altro, c’è in noi spazio per poter ricevere l’altro come il dono che riempie la mia vita.

Quando Gesù dice nel vangelo: «Se mi amate, osservate i miei comandamenti», in fondo sta dicendo questo. Se si trattasse semplicemente di osservare una norma, una legge, non ci sarebbe bisogno di amare. E d’altro canto, l’amore non può essere ridotto al puro compimento di un dovere. La parola di Gesù, che mette insieme comandamento e amore, ci chiede di andare più in profondità. «Se mi amate» vuol dire: se vi donate a me, se vi consegnate a me, se diventate parte di me, come il tralcio è parte della vite, allora osservate il mio comandamento, cioè: allora siete in grado di vivere come io vi ho mostrato. Il suo comandamento, infatti, è uno solo: amatevi gli uni gli altri, come io vi ho amato. Amatevi offrendo voi stessi all’altro come dono e ricevendo l’altro come dono, svuotandovi di voi stessi e lasciandovi ricolmare del dono dell’altro. Noi non siamo capaci di questo amore: è lo Spirito che ha unto Gesù, che lo ha consacrato e reso il Cristo, il Messia, che può operare in noi questa trasformazione.

Gesù ci promette ancora nel vangelo di questa solennità che Lui e il Padre verranno a noi e prenderanno dimora presso di noi. Lo Spirito ci è dato perché faccia di ciascuno di noi il luogo dove Dio può abitare. Lo Spirito inverte il movimento naturale di attrazione dell’uomo verso Dio. Ogni uomo tende verso la perfezione, la pienezza, l’infinità di Dio. È il desiderio naturale dell’uomo, ciò che costituisce la sua religiosità istintiva.

Ma Gesù, la Parola di Dio fatta carne, rovescia questa prospettiva. Non siamo noi che andiamo verso Dio. È Dio che viene verso di noi, che chiede di entrare nella mia vita, nella mia persona per farne la sua dimora. È qualcosa di così nuovo e sconcertante che non può essere accettato dalla ragione, dal senso comune, da ciò che Paolo, nella seconda lettura, chiama la “carne”. La carne si muove in una direzione opposta allo Spirito: vorrebbe divinizzare l’uomo, innalzarlo fino ad occupare il posto di Dio. Invece, lo Spirito segue la via contraria, quella di un Dio che si fa piccolo, si abbassa fino ad entrare nel grembo di una donna, fino ad abitare nel cuore ferito di un uomo peccatore.

È in queste profondità che ci fa penentrare il mistero che oggi celebriamo. Permettetemi di citare un passo di san Giovanni della Croce dal Cantico spirituale (39,7):

O anime create per queste grandezze e ad esse chiamate, che cosa fate? In che cosa vi intrattenete? Le vostre aspirazioni sono bassezze e i vostri beni miserie. O misera cecità degli occhi dell’anima vostra, poiché siete ciechi dinanzi a tanta luce e dinanzi a cosi grandi voci sordi, senza accorgervi che mentre andate in cerca di grandezze e di gloria rimanete miseri e vili, ignari e indegni di tanto bene!

Non chiudiamoci, fratelli e sorelle, nel ristretto orizzonte del nostro io, della nostra carne. Siamo stati creati per condividere la vita di Dio, il suo essere amore. Fermiamoci e chiediamoci: quanto può essere grande il mio cuore, la mia anima se Dio la sceglie come il luogo della sua dimora?