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Riflessioni in tempo di pandemia

La pandemia sta frantumando insieme alle persone più fragili, anche quel senso di autosufficienza che da molto tempo connota la cultura contemporanea, illudendo le persone che grazie alla tecnologia, alle scoperte scientifiche e ai mezzi economici, l’uomo avesse ormai saldamente nelle proprie mani il suo destino, in un futuro proiettato verso un progresso illimitato.

Forse, proprio questa illusione collettiva che fossero stati spostati illimitatamente in avanti i “paletti” del nostro limite umano, ci aveva fatto credere di essere finalmente in grado di cancellare i vari segni legati alla nostra limitatezza, a cominciare dalla parola “morte” e dal verbo “morire”. Una rimozione non solo linguistica, ma che si è tradotta nella vita di moltissime persone, tanto che di solito, non si muore più in casa propria, ma in ospedale o in un hospice; le lungodegenze sono diventate quasi inesistenti negli ospedali stessi, e il momento del trapasso rischia di essere sempre di più, e non soltanto  in questo tempo di pandemia, il momento della suprema solitudine, per una fatica crescente da parte dei sani e dei giovani in particolare, a prendere “familiarità” con il termine naturale della vita, che paradossalmente si pretende sempre di più di essere noi stessi a decidere quando debba verificarsi.

Il Covid19, ha buttato tutto all’aria, richiamando tutti al senso del limite delle capacità umane e della precarietà dell’esistenza; della preziosità della salute e della necessità di salvaguardarla, riscoprendo regole di comportamento e di saggezza che erano state ampiamente oltrepassate sia a livello personale che comunitario. In fondo, la pandemia ci ha richiamati tutti all’umiltà, come virtù necessaria e indispensabile per la realizzazione del vero bene comune.

L’umiltà, come sappiamo, è sempre virtù difficile, in particolare nel nostro tempo ubriacato di un complesso di superiorità che non vuol riconoscere limiti e norme, tanto da giungere perfino a negare che la pandemia sia reale, o che sia il frutto della macchinazione di un qualche potentato.

Dobbiamo pure ricordare che il covid19 non può essere considerato neppure un “flagello di Dio” per riportare la gente alla fede; e questo sulle parole di Gesù che di fronte a sciagure del proprio tempo provocate dalla cattiveria degli uomini o da fatti naturali, è determinato nel separare tali tragedie da specifici peccati commessi dalle vittime, quasi si fosse trattato di un rapporto tra causa ed effetto, nel momento stesso in cui però invita tutti alla conversione perché non capitasse altrettanto ad altri.

Una lettura sapienziale di ciò che sta accadendo, ci permette però di sottolineare un altro aspetto fondamentale della vita comunitaria, che è quello della solidarietà fraterna di cui tutti abbiamo bisogno e che ciascuno è chiamato ad offrire al suo prossimo. Una solidarietà che non può essere solo una connotazione di tipo “stagionale”, cioè per tempi particolarmente problematici, ma una caratteristica necessaria della vita di sempre. Non si può vivere in armonia senza fraternità, rinchiudendosi ciascuno nel proprio sentire individualistico; e nemmeno si può pensare solo ad un sistema di sostegno sociale pubblico, senza che si attivi quel di più che va oltre ciò che è retribuito ed attinge invece al senso di gratuità che ciascuno è chiamato ad esprimere con il suo prossimo.

E’ vero che l’amore né si paga, né si comanda; però è altrettanto vero che all’amore ci si educa; e soprattutto che per il cristiano, l’amore è dono che viene dal cuore stesso di Dio e che accolto, coltivato e fatto crescere, diventa amore fecondo che si estende, ramifica e fruttifica, raggiungendo anche chi sembrerebbe di non poter mai incontrare.

Una seria lettura sapienziale del momento che stiamo vivendo, ci chiede un supplemento di generosità, e soprattutto di disponibilità educativa verso le generazioni più giovani. Se è vero che il dono dell’amore che viene da Dio ci ha raggiunto da sempre; è vero pure che questo amore chiede di essere accompagnato, testimoniato ed esemplificato da chi è consapevole di averlo ricevuto. Ciò avviene nella concretezza di ogni giorno; nella disponibilità a farci prossimi di chi è nel bisogno, nell’accompagnamento sereno e fraterno di chi cresce e si apre alla vita e di chi si avvia verso il tramonto sulla scena di questo mondo.

L’importante è che nessuno si ritrovi solo e abbandonato, sia all’alba come al tramonto, quando, in un caso e nell’altro, la luce non è ancora piena o non brilla più a sufficienza. La stessa presenza del Signore che non viene mai meno per nessuno, ha però bisogno di visibilità per essere riconosciuta e accolta; ed ha bisogno di volti, di mani e di cuore di fratelli e di sorelle per essere significata chiaramente a chi più ne ha di bisogno.

E’ questo l’impegno che in un tempo di morte, può di nuovo far trionfare la vita. Quella vera.18  novembre 2020

        + Giovanni Paolo Benotto