Conferenza del ciclo “La speranza, dialogo tra pensieri diversi”
Camposanto monumentale – 16 maggio 2025
Papa Francesco ha scelto la speranza come tema ispiratore di questo anno giubilare. Accogliendo il suo invito, ci troviamo oggi a dialogare sulla speranza da prospettive ed esperienze diverse, come vario e plurale è il mondo in cui viviamo. Ma se siamo qui insieme a dialogare sulla speranza è perché siamo tutti convinti, magari diversamente convinti, che di speranza abbiamo bisogno per vivere e che senza di essa ciò che viviamo non è più vita umana in senso pieno, ma un esistere aggrappati al momento presente, di cui constatiamo tutta la precarietà e incertezza. Se cancelliamo il passato e non siamo più interessati o capaci di proiettarci verso il futuro, la nostra identità personale e comunitaria diventa sempre più evanescente ed effimera. Proprio questo è il paradosso del nostro tempo: a furia di vivere di sensazioni, di immagini, di produzione e consumazione di cose, ne va della nostra umanità. Invece che come soggetti, ci pensiamo come oggetti e alla cura del sé, dell’essere che ci è stato donato, tendiamo a sostituire la manutenzione del meccanismo psico-fisico e il controllo della sua efficienza. Così però non c’è né storia, né libertà, né spazio per autentiche relazioni interpersonali. Alla crescita si sostituisce l’accumulo, all’incontro il dominio, alla relazione la solitudine, alla creatività la ripetizione, al diverso e imprevisto l’uguale. Il giovane Carlo Acutis diceva: «Tutti nascono originali, molti muoiono fotocopie». Aveva colto perfettamente, vorrei dire profeticamente, il processo di appiattimento e di impoverimento di cui stiamo parlando.
Sperare per essere umani
Non possiamo dunque fare a meno della speranza, come non possiamo fare a meno della fede e dell’amore, per essere umani. Sant’Agostino, in un passo citato da papa Francesco nella bolla d’indizione di questo Giubileo, scrive: «In qualunque genere di vita, non si vive senza queste tre propensioni dell’anima: credere, sperare, amare».1 So che è strano o – come si suol dire oggi – controintuitivo, ma è così: l’uomo non riesce ad essere se stesso senza uscire da se stesso, senza riceversi dall’altro e darsi all’altro. Quanto più la persona umana resiste a questa «propensione dell’anima (animae affectio)», come dice Agostino, tanto meno si conosce, si possiede e si realizza. Capisco che uscire da se stessi non è un’operazione facile o indolore, significa rinunciare alle proprie sicurezze ed esporsi a un rischio, ma l’umanità dell’uomo dipende proprio da questa capacità di arrischiare la vita. Mi vengono in mente gli enigmatici, quanto famosi versi di Hölderlin: «È vicino e difficile da comprendere il Dio, ma dove è il pericolo cresce anche ciò che dà la salvezza».2 Vicinanza e difficoltà, pericolo e salvezza sono poli necessariamente in tensione nell’umanità dell’uomo ed è questa tensione che noi cristianamente chiamiamo con tre nomi inseparabili: fede, speranza e carità. Credere, sperare e amare sono tre dimensioni di un unico movimento di esodo e di perdita ed è soltanto in questo movimento, in questo salto o volo senza ali che si sperimenta il Dio altro e vicino, il Dio che salva chi ha osato volare senza la sicurezza di avere ali per poterlo fare.
Speranza e fede
La speranza è talmente legata alla fede che nel Nuovo Testamento i due termini sono spesso interscambiabili.3 Per esempio, la Prima lettera di Pietro esorta i credenti a tenersi pronti «a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (1Pt 3,15). È significativo che per l’autore della lettera l’atteggiamento dei cristiani più suscettibile di interessare e interpellare i non cristiani è la speranza, ossia la fede che si vive e testimonia come speranza. Possiamo chiederci perché. Forse perché la fede può essere interpretata come una forma di sapere, di accettazione di una serie di contenuti dottrinali e la carità come un fare, un agire benefico in favore di chi ha più bisogno. Evidentemente non sono solo questo, ma è facile ricondurre questi due atteggiamenti fondamentali dell’esistenza cristiana entro una prospettiva mondanamente comprensibile. È più difficile farlo con la speranza, proprio perché la speranza ha a che fare direttamente con il modo di essere, di vivere e di sentire della persona. Riguardo alla speranza è più difficile pensare che sia il portato di una costruzione mentale o di una scelta morale. Anche per la speranza si potrebbe dire quel che don Abbondio diceva del coraggio al cardinale Federico Borromeo: «uno, se non ce l’ha, mica se la può dare». Se c’è speranza in me, questo è il segno esistenziale che in me è avvenuta una trasformazione profonda. Come scrive papa Benedetto XVI nell’enciclica Spe salvi:
Il cristianesimo non era soltanto una «buona notizia» – una comunicazione di contenuti fino a quel momento ignoti. Nel nostro linguaggio si direbbe: il messaggio cristiano non era solo «informativo», ma «performativo». Ciò significa: il Vangelo non è soltanto una comunicazione di cose che si possono sapere, ma è una comunicazione che produce fatti e cambia la vita. La porta oscura del tempo, del futuro, è stata spalancata. Chi ha speranza vive diversamente; gli è stata donata una vita nuova.4
Ma in che cosa consiste la speranza cristiana? La speranza cristiana è innanzitutto la speranza del cristiano, ossia di chi ha conosciuto e creduto all’amore di Dio manifestato in Cristo Gesù. Il cristiano spera in quanto cristiano che ciò che è già avvenuto in Gesù Cristo giunga a compimento nella propria storia personale e nella storia del mondo. Nell’evento di Gesù Cristo c’è, infatti, una dimensione di memoria del passato, di annuncio del presente e di attesa del futuro. Pertanto, chi crede in Cristo lo riconosce come il Signore nella storia di Gesù di Nazareth, lo annuncia presente nella comunità dei suoi discepoli e nei suoi gesti di salvezza e ne attende la venuta finale, in cui tutto sarà salvato e ricapitolato in Lui. La fede in Gesù Cristo si caratterizza proprio per questa duplice relazione alla storia del mondo: per un verso Gesù è nella storia come il Dio fatto veramente uomo, per un altro la storia è contenuta nell’evento di Gesù, «l’Alfa e l’Omega, il Primo e l’Ultimo, il Principio e la Fine» (Ap 22,13).
Il tema specifico di questo nostro dialogo è la “speranza ultraterrena”, cioè la speranza che si estende al di là della condizione terrena, dei suoi limiti fisici e temporali. Dal punto di vista della fede cristiana, tuttavia, ciò che è al di là della vita terrena e della morte non è al di là del Cristo morto e risorto. Il cristiano non spera che esista qualcosa al di là della morte, qualcosa che desidera o teme, ma non conosce e può solo immaginare. Il cristiano attende che la relazione con Gesù Cristo, già sperimentata nella fede, giunga a pienezza nell’incontro con Lui, «che è, che era e che viene» (Ap 1,8). Al di là della morte, quindi, non c’è l’ignoto, un’ombra impenetrabile, ma ciò che si è già rivelato e donato nell’al di qua.
L’ottavo giorno
È stato scelto di collocare questo dialogo sulla speranza ultraterrena nello scenario del Camposanto monumentale ed è facile comprendere il perché. Ma come dicevo, accade che la fede cristiana, e quindi anche la carità e la speranza siano controintuitive. In effetti, la morte è il luogo della fine di ogni speranza terrena e dunque, come dice l’angelo alle donne venute a cercare Gesù nel sepolcro: «Non è qui. È risorto» (Mt 28,6). Anche la speranza non è qui, è risorta, cioè: non abita questo luogo, dobbiamo andarla a cercare altrove. Non bisogna fare un lungo viaggio per trovarla. Basta spostarsi in un altro luogo di Piazza dei Miracoli, nel Battistero. Al centro troviamo una grande vasca ottagonale. Perché proprio ottagonale? Papa Francesco lo spiega nella bolla del Giubileo:
Per lungo tempo […] i cristiani hanno costruito la vasca battesimale a forma ottagonale, e ancora oggi possiamo ammirare molti battisteri antichi che conservano tale forma, come a Roma presso San Giovanni in Laterano. Essa indica che nel fonte battesimale viene inaugurato l’ottavo giorno, cioè quello della risurrezione, il giorno che va oltre il ritmo abituale, segnato dalla scadenza settimanale, aprendo così il ciclo del tempo alla dimensione dell’eternità, alla vita che dura per sempre: questo è il traguardo a cui tendiamo nel nostro pellegrinaggio terreno.5
Forse non ci abbiamo pensato o non lo abbiamo meditato a sufficienza: in che giorno è risorto Gesù? La risposta dei vangeli non è quella che a noi viene spontanea, e cioè la domenica, che all’epoca ovviamente non esisteva, e, nel nostro calendario cristiano, ha preso il posto del sabato ebraico. Il giorno della risurrezione per i vangeli è al di fuori del ciclo settimanale, è «il giorno dopo il sabato». Il sabato, secondo il racconto della creazione nei primi capitoli della Genesi, conclude con il riposo il ciclo settimanale, che poi riprende con il primo giorno della settimana successiva. Ma il giorno dopo il sabato non è il primo giorno della settimana successiva. È l’ottavo giorno, qualcosa non contenibile nel ritmo settimanale, il giorno senza tramonto, che inaugura una nuova creazione: «Questo è il giorno che ha fatto il Signore», come dice il Salmo 118,24. Il Risorto non ritorna al ciclo del tempo terreno, ma inaugura un tempo nuovo, «un nuovo cielo e una nuova terra», secondo la visione di Ap 21,1. Gesù, risorgendo da morte, crea il suo spazio e il suo tempo, l’ottavo giorno in cui soltanto può collocarsi la vita nuova che prosegue il cammino oltre la morte. Non lo prosegue ritornando indietro, al tempo di prima, ma aprendo la morte alla vita, trasformando la morte nel grembo della vita eterna, così come Dio in principio ha trasformato il caos informe in mondo creato.
La luce che illumina l’ottavo giorno non è più la luce del sole o degli astri, è la luce di Cristo, che splende in modo diverso dalla luce naturale. È una luce che non solo illumina, ma trasforma in luce, come dice Paolo nella Seconda lettera ai Corinzi 3,18: «E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore». Dalle parole di Paolo si deduce che l’ottavo giorno ha una storia, conosce un cammino di progressiva trasformazione. L’ottavo giorno, pertanto, non può essere adeguatamente compreso come l’eterno intemporale. È piuttosto un tempo glorificato, in cui crescono e si trasformano corpi, cuori e volti anch’essi glorificati. Mi pare che la parola della Scrittura sia in questo senso molto più ricca e rivelatrice rispetto allo schema di religiosità naturale, che pensa l’aldilà semplicemente in termini di premio/castigo. Certo, si può rifiutare la luce, ci si può chiudere ad essa, proprio perché la sua accoglienza non è naturale come l’essere illuminati dal sole. Si può “vedere e non credere” e in tal modo si resta fermi e muti davanti al sepolcro o si scappa impauriti (cfr. Mc 16,8). Ma varcata la soglia del credere, e quindi dello sperare e amare, si percorre un cammino di assimilazione al Risorto, di ingresso nell’ottavo giorno.
L’ottavo giorno come aldilà del presente
Ma c’è ancora un altro aspetto importante di cui ci parla il Nuovo Testamento. L’ottavo giorno esiste, è già presente, non comincerà dopo la morte o dopo la fine del mondo. Dunque, in qualche modo, esso entra in relazione con i giorni delle nostre settimane. La speranza, pertanto, non si rivolge solo a un aldilà della vita terrena, ma anche o innanzitutto a un aldilà della dimensione terrena della vita. Vorrei rileggere con voi, almeno per sommi capi, il capitolo 21 del Vangelo di Giovanni. Si tratta di un capitolo aggiunto successivamente perché il vangelo si concludeva originariamente al cap. 20,30-31: «Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome». Perché qualcuno ha sentito il bisogno di aggiungere un altro capitolo? Forse proprio per non concludere il Vangelo con il racconto dei segni fatti da Gesù nella sua esistenza terrena e lasciarlo aperto ai segni della sua presenza nel tempo della Chiesa. Mi piace leggere il capitolo 21 come il capitolo dell’ottavo giorno. In effetti, è il capitolo oltre la conclusione che parla di ciò che avviene oltre la fine dell’esperienza del Gesù terreno, ma sempre con lo stesso fine: «perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome».
Il capitolo 21 di Giovanni comincia con Pietro che annuncia ad alcuni dei suoi compagni: «Io vado a pescare». Non intende: vado a fare il pescatore di uomini, ciò a cui Gesù lo aveva destinato quando lo aveva chiamato (cfr. Mc 1,16). Pietro ritorna alla ferialità, al primo giorno della settimana, come se nulla fosse successo, come se non ricordasse più ciò che è stato raccontato nei precedenti venti capitoli. Pietro sembra dire: la vita continua…, come a volte diciamo anche noi a mo’ di incoraggiamento a chi ha sofferto la perdita di una persona cara. Ma la vita che continua senza Gesù, senza il Risorto non è la vita, è una prosecuzione di gesti che non producono risultati, che non danno da vivere. La vita che continua senza Gesù è una vita non salvata, non illuminata, priva di guida, di senso. Pietro, il capo degli apostoli, infatti, guida i suoi a una pesca infruttuosa. E ciononostante, la luce, la guida, il senso ci sono e si manifestano. Gesù viene incontro ai suoi discepoli e li reindirizza verso la vita nuova. Gesù è là come l’ottavo giorno che viene incontro alle opere e ai giorni delle nostre settimane. Si manifesta e subito il discepolo amato lo riconosce come il Signore. I discepoli non hanno riconosciuto Gesù, non si sono accorti che quel passante era Gesù, ma il discepolo amato, vedendo il segno della pesca straordinaria e credendo, dice: «È il Signore» (Gv 21,7) e alla fine – nota l’evangelista – «nessuno dei discepoli osava domandargli: “Chi sei?”, perché sapevano bene che era il Signore» (Gv 21,12). L’ottavo giorno si manifesta nella ferialità del presente come signoria del Risorto su di essa.
C’è un messaggio fondamentale in questa pagina. Il Risorto non ci chiama a uscire dalla nostra storia, dalla nostra condizione terrena, ma a viverla con Lui, ponendola sotto il segno della salvezza già realizzata. Che cosa questo significhi concretamente, quali disposizioni o affezioni dell’anima, per dirla con Agostino, ciò comporti lo chiarisce la seconda parte del capitolo, laddove Gesù si rivolge a Pietro e, indirettamente, al discepolo amato. Riconoscere Gesù come il Signore è permettergli di entrare nella nostra quotidianità, anzi permettere che la nostra quotidianità entri nella sua esistenza risorta. Come avviene questo? L’evangelista tratteggia due percorsi, due modalità di accesso. Quella di Pietro è espressa con due verbi: amare e pascere, amare Gesù e nutrire il suo gregge. È un impegno radicale, che coinvolge cuore e corpo, mente e volontà. Dall’altro lato c’è la modalità del discepolo amato, per il quale si usano altri due verbi: rimanere e testimoniare. Rimanere non vuol dire non morire, ma rimanere nel Risorto, nel suo ottavo giorno, nella meta, per poter da lì riconoscere e testimoniare la sua presenza nel mondo, i suoi segni di salvezza. Sant’Agostino, sviluppando una profonda meditazione sull’amare di Pietro e l’essere amato di Giovanni, ha identificato la vita di Pietro con la vita pellegrinante sulla terra e quella del discepolo amato con la vita nell’eterna dimora.6 Senza nulla togliere a questo ineguagliabile testo classico, credo che sia possibile anche una lettura che non contrappone le due vite o vie, ma le considera complementari, come due dimensioni entrambe necessarie perché il vangelo sia accolto, annunciato e testimoniato. A partire dalla comune fede nel Signore, si sviluppano le due diverse dinamiche: quella dell’amore per Gesù, che si traduce nella cura pastorale del gregge, e quella della speranza in Lui, che apre all’attesa del compimento. Compimento che giungerà solo come opera sua, di Dio, e non come risultato delle nostre fatiche umane. Per questo l’amore non può essere separato dalla speranza, né la speranza dall’amore.
7A conclusione di questa breve riflessione permettetemi un riferimento al Carmelo. È noto che santa Teresa di Gesù Bambino, nell’ultimo anno e mezzo della sua vita, attraversò una grave crisi di fede. Ciò che si oscurò in lei fu soprattutto la credenza nell’aldilà. La morte le si presentò come un muro invalicabile, al di là del quale non riusciva a percepire se non la notte del nulla. Ma in questa notte della fede, Teresa elabora una sua visione dell’aldilà. All’impossibile rappresentazione di un regno dell’oltretomba, Teresa sostituisce semplicemente il suo amore per Gesù e la fiducia cieca in Lui. Ne risulta una nuova immagine della vita eterna. Non ci sono cieli che si aprono, nuvole rosate e angeli festanti. «Il mio Cielo – dice Teresa nei suoi Ultimi colloqui – trascorrerà sulla terra sino alla fine del mondo. Sì, voglio passare il mio Cielo a fare del bene sulla terra». Il Cielo della piccola Teresa assomiglia molto alla terra. Non è ultraterreno, anzi è piuttosto intraterreno, perché il suo teatro è la terra, la storia, percorsa tutta, fino in fondo, fino alla fine del mondo. Il Cielo è la terra amata con l’amore di Cristo e così accolta e introdotta nella luce del suo giorno senza tramonto. Non c’è altro da attendere o da sperare. Può sembrare un’affermazione rivoluzionaria, ma non è troppo diverso da ciò che 110 anni più tardi Benedetto XVI ha scritto nell’enciclica Spe salvi. Permettetemi di concluderre con le sue autorevoli parole: «Dio è il fondamento della speranza – non un qualsiasi dio, ma quel Dio che possiede un volto umano e che ci ha amati sino alla fine: ogni singolo e l’umanità nel suo insieme. Il suo regno non è un aldilà immaginario, posto in un futuro che non arriva mai; il suo regno è presente là dove Egli è amato e dove il suo amore ci raggiunge».8
- AGOSTINO, Discorsi, 198 augm., 2 (cit. in FRANCESCO, Spes non confundit 3). ↩︎
- F. HÖLDERLIN, Patmos, vv. 1-4. ↩︎
- Cfr. BENEDETTO XVI, Spe salvi, 2. ↩︎
- Ivi. ↩︎
- FRANCESCO, Spes non confundit, 20. ↩︎
- Cfr. AGOSTINO, Commento al vangelo di san Giovanni, 124,5. ↩︎
- TERESA DI GESÙ BAMBINO, Quaderno giallo, 17 luglio 1897. ↩︎
- BENEDETTO XVI, Spe salvi, 31. ↩︎