il portale della Chiesa Pisana

Meditazione per il Giubileo del clero diocesano 2025

Meditazione per il ritiro del clero diocesano
Giubileo dei sacerdoti Festa della Madonna di Montenero
Chiostro della chiesa di S. Agostino a Pietasanta 15 maggio 2025

Che cosa speriamo?

Parliamo di speranza. È una delle parole-chiave che papa Francesco ci ha lasciato in eredità e non a caso è sotto il segno della “speranza che non delude” che ha posto il presente anno giubilare. Ma qual è questa speranza che non delude? Non si può trattare delle tante speranze o, forse meglio, aspettative che portiamo dentro di noi, più alte o più basse, più nobili o più triviali, più individuali o più comunitarie. Noi speriamo molte cose, che possono accadere o non accadere, che possiamo acquistare e possedere per un certo tempo e poi perdere, che possono darci una sensazione di felicità e di benessere ma che possono rivelarsi anche illusorie o addirittura di ostacolo al nostro cammino. La speranza che non delude e che non illude non può dunque avere per oggetto tutte queste cose, realmente buone o solo ritenute tali, che normalmente desideriamo e speriamo di ottenere per noi, per i nostri cari, per la nostra comunità, per il mondo intero.

Anche come Chiesa, la Chiesa che è in Pisa, in Italia, in Europa, in tutto il mondo quali sono le nostre speranze? Che cosa ci attendiamo dal nuovo Papa? Come ministri ordinati oggi che cosa speriamo? Di avere più vocazioni sacerdotali? Che aumenti la partecipazione dei fedeli alla Messa domenicale? Che la Chiesa sia più influente nella società e sulle decisioni dei governi? Ci sono anche “speranze dell’istituzione” che assomigliamo molto alle speranze dell’ego (legate all’istinto di sopravvivenza e di autodifesa) e che dunque non coincidono necessariamente con la speranza che non delude.

A volte, non è facile discernere se il nostro desiderio o la nostra speranza sia secondo la carne o secondo lo Spirito. Un buon criterio di discernimento è tenere presente che i desideri dello Spirito sono sempre ascoltati ed esauditi da Dio, a differenza dei desideri della carne. Ricordiamo ciò che dice Paolo nella Lettera ai Romani 8, 26-27: «Lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza; non sappiamo infatti come pregare in modo conveniente, ma lo Spirito stesso intercede con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa che cosa desidera lo Spirito, perché egli intercede per i santi secondo i disegni di Dio». La speranza che non delude è appunto quella «secondo i disegni di Dio», che si inserisce nel suo piano salvifico. È dunque la speranza saldamente fondata su ciò che già è avvenuto, e insieme protesa verso un non ancora che attende con fiducia e perseveranza, nonostante tutte le possibili evidenze contrarie. La speranza che non delude è spesso «speranza contro ogni speranza» (Rm 4, 18), come la speranza di Abramo, fondata sulla promessa di Dio e sulla fede che Dio stesso avrebbe portato a compimento quanto aveva promesso, indipendentemente dalle oggettive condizioni di incapacità fisica, psichica, morale di Abramo. La speranza che non delude è la speranza di Abramo, che non dipende da ciò che noi siamo capaci di fare o da ciò che il mondo ci può offrire.

La speranza fondata sul “già” creduto e sperimentato

Noi dunque apprendiamo a sperare a partire da ciò che Dio ha già compiuto nella storia del mondo e nella nostra storia particolare. Il primo già, quello della salvezza del mondo, è oggetto di fede; il secondo già, quello della mia storia personale, è oggetto di esperienza. Se vogliamo mantenere viva la speranza ed essere «lieti nella speranza», il che ci rende anche «forti nella tribolazione e perseveranti nella preghiera» (Rm 12, 12), abbiamo bisogno di crescere in queste due direzioni: la fede e l’esperienza. In effetti, l’una ha bisogno dell’altra. Quando parliamo di fede, parliamo sì di un «deposito della fede» oggettivo, insegnato dalla Chiesa, ma di esso abbiamo non solo una conoscenza intellettuale, ma anche un’esperienza esistenziale. Non lo sappiamo soltanto, ma crediamo in esso, cioè su di esso fondiamo la nostra vita, perché in qualche modo lo abbiamo “conosciuto”, lo abbiamo “visto” (verbi biblici che dicono l’esperienza della fede). La fede cambia il modo di fare esperienza del nostro mondo interiore ed esteriore, che viene riscoperto come creato, salvato, santificato da Dio, e quindi inseparabile da Dio Padre, Figlio e Spirito Santo. Se così non fosse, non potremmo pretendere di evangelizzare, di essere comunicatori credibili del Vangelo di Gesù Cristo.

In questa connessione tra fede ed esperienza credo che si collochi anche il cuore pulsante della nostra missione di ministri ordinati, da cui dipende molto della sua efficacia e autorevolezza. Noi non svolgiamo un mestiere, basato su capacità professionali, non siamo “funzionari del sacro”. Certamente, lo sappiamo, una dimensione essenziale del ministero ordinato è la “rappresentanza istituzionale”, il custodire il legame che unisce il singolo fedele e la comunità locale alla Chiesa universale e alla Chiesa di tutti i tempi mediante l’ortodossia della dottrina, i sacramenti e la disciplina ecclesiale. Ma è decisivo il modo in cui esercitiamo questo ministero, ossia se lo presentiamo come una funzione, della quale l’istituzione Chiesa ci ha incaricati e abilitati a svolgerla, o se invece esso è incarnato nella nostra vita, nel nostro modo di essere nel mondo e nella Chiesa.

Permettetemi una breve esemplificazione puntuale, ma riguardo a un punto di capitale importanza per la vita di un ministro ordinato, e cioè la celebrazione dell’eucaristia. Vi invito a riflettere su questa azione che noi compiamo, suppongo, quotidianamente. Mi pongo e vi pongo soprattutto una domanda: quante energie, quanto “tempo interiore” investo in essa? Quanta attenzione, concentrazione dedico all’ascolto previo della Parola di Dio, quanto entro in dialogo con essa? Quanto immergo il mio cuore, la mia mente, le mie forze nel celebrare? E alla fine quante energie e quanta vita ricevo moltiplicata dalla celebrazione? È un centro che struttura, una luce che illumina e orienta la mia giornata o è uno dei tanti compiti che devo svolgere a causa del mio ruolo? Credo che a partire da una riflessione sul mio modo di vivere e celebrare l’eucaristia posso fare una verifica su tutta la mia attività pastorale e su quanto appartenga non solo al mio fare/produrre, ma sia il luogo in cui è coinvolto e alimentato il mio essere più vero e più profondo. In effetti, sarebbe vano parlare di “speranza che non delude”, se il luogo da cui più direttamente e costantemente dovremmo attingerla si trasformasse per noi in un deserto arido e piatto.

Nonostante Gesù Cristo, nonostante il Nuovo Testamento – in modo particolare la Lettera agli Ebrei –, il nostro ministero può diventare qualcosa di molto simile all’ufficio sacerdotale proprio di ogni religione. Domandiamoci: il nostro sacerdozio assomiglia di più al sacrificare religioso, nel senso di sacra facere, compiere “azioni sacre”, come tali arcane e separate dal mondo profano, o al «culto spirituale» di cui parla san Paolo, consistente nell’ «offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio» (Rm 12, 1)?

La speranza protesa verso il “non ancora”

Il sacrificio vivente non è pura ripetizione di parole e di gesti, ma è unione al sacrificio vivo di Gesù Cristo e questo comporta una trasformazione costante della mia vita, oggi, qui e ora. Non a caso Paolo continua al versetto successivo del cap. 12 di Romani: «Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto» (Rm 12, 2). È proprio in questo processo di non con-formazione e di trans-formazione (oltre, al di là della forma raggiunta) che si apre l’orizzonte del non ancora. Questo spazio/tempo del non ancora si va definendo grazie a due coordinate che sono il discernimento della volontà di Dio e il rinnovamento del nostro modo di pensare. Paolo definisce tutto ciò «culto spirituale» [logiké latréia], azione cultuale con la quale offriamo a Dio noi stessi, il nostro spirito o logos. Il ministero ordinato acquista vita, carne, capacità di parola e di comunicazione, attualità solo se è integrato e fondato sul sacerdozio cristiano, battesimale. Si può essere ministri ordinati di Cristo solo sulla base del nostro essere in Cristo. Non vorrei che a furia di distinguere – come è necessario fare – il sacerdozio comune da quello ordinato, dimenticassimo il loro intrinseco legame.

Se tutto questo è vero, la speranza che non delude si mantiene viva nella Chiesa e nella nostra missione presbiterale (come pure diaconale ed episcopale) mediante il duplice cammino di discernimento della volontà di Dio e di rinnovamento della nostra mente. Gesù non ci ha consegnato un codice di pronunciamenti dottrinali e di norme morali e rituali da mettere in pratica. Gesù ha dato vita alla Chiesa e le ha donato lo Spirito perché potesse continuare l’opera da Lui compiuta. Continuarla proprio nel senso di dispiegarne la forza vitale, di far germogliare e fruttificare i semi di futuro già presenti in essa. Ciò richiede di essere Chiesa «nel mondo contemporaneo» – come dice il titolo della Gaudium et spes –, in una piena condivisione della storia e della vita degli uomini e donne del nostro tempo. Siamo membra di un corpo, cioè di un organismo vivente, che in quanto tale cresce, si sviluppa, si rigenera incessantemente.

Discernere la speranza

Fatte queste premesse, ritorno alla domanda iniziale: qual è la nostra speranza che non delude, come preti, come vescovo di questa Chiesa che è in Pisa? Come riconoscerla e lasciarsi ispirare da essa? Abbiamo bisogno di un processo di discernimento e, coerentemente con quanto ho appena detto, sono convinto che dobbiamo partire dal già realizzato della salvezza. C’è un già salvato e salvante in me, di cui ho fatto esperienza nella mia storia personale. Questo è il fondamento solido della mia speranza per il non ancora. Lo stesso dobbiamo affermarlo per la Chiesa di cui facciamo parte e al cui servizio siamo stati posti. Questa Chiesa ha in sé un già di grazia e di verità, di santità e bontà, che dobbiamo saper cogliere. Ho molto apprezzato ciò che scrisse Pierangelo Sequeri in una riflessione del 2009: «La nostra grazia, ora, è la comunità cristiana che c’è».[1] Credo che questo sia profondamente vero. Il problema sta nello sguardo con cui guardiamo alla comunità che c’è. Se noi la guardiamo con un filtro che sovrappone alla realtà l’immagine di Chiesa che portiamo impressa nella nostra mente, ciò che risalterà sono le differenze tra ciò che la Chiesa è oggi realmente e ciò che noi pensiamo debba essere. Sicuramente sotto molti aspetti emergono deficienze, lacune, problemi. Ma la questione è un’altra: la mancanza, la differenza, la distanza tra la realtà e l’idea, tra il presente e il passato o tra il presente e il futuro da noi immaginato e auspicato in base al nostro orientamento ideale o ideologico, in che modo va interpretata? Siamo chiamati a ripristinare la condizione precedente o a darci da fare per realizzare la nostra idea di Chiesa? Dobbiamo riempire i vuoti che si sono creati e forse anche eliminare le aggiunte che non corrispondono alla nostra immagine? E se invece ciò che interpretiamo come vuoto fosse l’apertura di un nuovo spazio su cui costruire? Se la crepa fosse il passaggio attraverso cui filtra una luce nuova e passa un vento fresco? Se il sentiero cancellato fosse l’invito a cercare un nuovo cammino?

Cari fratelli, sono domande aperte che rivolgo a voi, ma innanzitutto a me stesso. Non ho già le risposte, ma sono certo che, se cercheremo nel modo e nella direzione giusta, le troveremo. Uso non a caso il plurale, e non è un plurale maiestatico. Troveremo le risposte se le cercheremo insieme, perché la prima maniera e direzione giusta è quella di non chiuderci in noi stessi, nel nostro piccolo ego, nella nostra illusoria comfort zone, da cui ci sentiamo protetti, mentre in realtà ne siamo impoveriti e condizionati. Per questo è importante uscire dall’illusione e porre la speranza nella realtà, nella Chiesa che c’è, come diceva Sequeri, per quanto povera, ferita e inadeguata ci possa apparire. Ma a guardare meglio, con occhi meno mondani, che cosa costituisce la grazia e la benedizione della Chiesa che c’è? Forse conoscete l’augurio pasquale del vescovo e teologo tedesco Klaus Hemmerle, che dice così:

Auguro a noi occhi di Pasqua
capaci di guardare
nella morte fino alla vita,
nella colpa fino al perdono,
nella divisione fino all’unità,
nella piaga fino allo splendore,
nell’uomo fino a Dio,
in Dio fino all’uomo,
nell’io fino al tu.
E insieme a questo, tutta la forza della Pasqua!

Mi verrebbe da aggiungere a questa lista di luoghi esistenziali a cui guardare con occhi di Pasqua il luogo dello scoraggiamento, della delusione, della paura: se solo riuscissimo a guardare in esso fino alla speranza! È proprio lì, dove ci sentiamo minacciati, nelle situazioni che provocano in noi diffidenza, paura, sospetto, che si nascondono i semi del futuro. C’è, per esempio, in noi tutti un istintivo timore dell’altro, dell’altro lontano e diverso, ma ancor di più dell’altro vicino e simile, del fratello, del compagno di strada, che può trasformarsi in concorrente, in ostacolo, in peso da portare. Recitiamo il Salmo 133, il salmo dell’amore fraterno, ma è per noi davvero «bello e dolce che i fratelli vivano insieme»? O non è piuttosto una situazione che ci sfida, ci mette in discussione e in qualche modo ci complica la vita?

Permettetemi a questo proposito una brevissima digressione su un versetto biblico, che ha una storia interessante. Si tratta di Pr 18, 19. Se lo cercate nell’ultima traduzione CEI, suona così: «Un fratello offeso è più inespugnabile d’una roccaforte, le liti sono come le sbarre di un castello». Ma se andate a cercare la versione greca della LXX (o anche la versione latina dell’antica Vulgata, utilizzata anche in alcuni testi liturgici) lo stesso versetto è interpretato così: «Un fratello aiutato da suo fratello è come una città alta e fortificata, è forte come un bastione regale». È come se la storia della tradizione di questo versetto biblico che ci parla dell’esperienza della fraternità ce ne mostrasse i due volti, quasi come un Giano bifronte: il volto della pace e della forza e il volto del conflitto e della sconfitta. È un buon esempio di come la stessa realtà, in questo caso la relazione col fratello, può essere origine di speranza o di minaccia, motivo di fiducia o di preoccupazione, forza liberante o imprigionante.

La relazione con l’altro, e specialmente con il più vicino, il confratello, credo che sia uno dei luoghi più importanti «di apprendimento ed esercizio della speranza», come si esprime l’enciclica Spe salvi (n. 31). Potremmo indicarne molti altri, anzi vi suggerirei di riflettere su quali siano per ciascuno di voi i “luoghi della speranza”. Ritengo che un buon metodo per individuarli sia proprio seguire la traccia delle nostre paure, che spesso non sono che l’altra faccia, la faccia visibile alla carne e al mondo, della speranza, visibile all’uomo rinnovato dalla Pasqua. A me personalmente vengono in mente la paura della nuova missione affidatami, le responsabilità, la fragilità fisica e psicologica, l’esperienza della solitudine, la necessità di un rinnovamento della Chiesa e insieme l’incertezza di come realizzarlo. Eppure sono convinto che dietro ognuna di queste nubi oscure e minacciose si celi l’occasione di grazia per un cambiamento decisivo, capace finalmente di dilatare il mio cuore e di rendere più piena e generosa la mia consegna a Dio e ai fratelli.

In conclusione, mi pare che la speranza che non delude sia quella che ci mette a rischio, che ci chiede di «avventurare la vita»,[2] secondo la logica del Vangelo: «Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà» (Mt 16, 27).


[1] P. Sequeri, «L’umano con-segnato. Riflessioni sullo stato sacerdotale», in Rivista del Clero Italiano 90, 2009, pp. 717-733 (720).

[2] Teresa di Gesù, Libro della vita, 21, 4.