Cattedrale, 31 dicembre 2021
Sembra quasi un controsenso celebrare il “Te Deum” di ringraziamento in un tempo come è quello che stiamo vivendo, con una recrudescenza della pandemia che pensavamo di poterci lasciare alle spalle. Tutto è messo in discussione: la salute di tanta gente in tutto il mondo; la possibilità di vivere la propria dignità umana attraverso il lavoro che per tante categorie di persone è a rischio o è già stato perduto; la gioia di potersi incontrare liberamente intorno ad una tavola e fra amici; la possibilità di trascorrere un periodo di vacanza senza dover temere di ritrovarsi poi in quarantena; in una parola: la possibilità di vivere serenamente quanto eravamo abituati a programmare e a realizzare fino a due anni or sono.
Non manca chi, stasera, vorrebbe poter dimenticare tutto ciò che è accaduto e voltare pagina, magari ritornando alla spensieratezza delle feste per l’ultimo dell’anno 2019, quasi cancellando ciò che ancora ci sovrasta e che sentiamo quale pericolo incombente su ciascuno, sulle nostre famiglie e sulla intera società mondiale.
Ma non è dimenticando o facendo finta che tante difficoltà che ci opprimono, non siano reali, che è possibile voltare pagina; anzi, penso che solo affrontando in maniera diretta, non da soli, ma insieme, i problemi che ci attanagliano sia possibile andare oltre e superare nel modo giusto quanto ci sta creando fatica e sfinimento soprattutto per la capacità di sperare nel futuro.
C’è una espressione di Gesù che fa al caso nostro e che l’evangelista Matteo mette sulle labbra del Signore dopo che questi aveva rimproverato duramente con un “guai” ripetuto più volte ”le città nelle quali era avvenuta la maggior parte dei suoi prodigi perché non si erano convertite” (11,20): “Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza”(11, 25-26).
E’ evidente che Gesù non loda e ringrazia il Padre celeste perché le città dove aveva proclamato il lieto annuncio ed aveva operato segni e prodigi erano rimaste insensibili; bensì perché il disegno di salvezza pensato da Dio per l’umanità continua a realizzarsi nonostante le tante resistenze che vengono opposte dagli uomini. Già Isaia aveva profetizzato a nome di Dio: “I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie. Oracolo del Signore. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri”(55,8-9). Non solo; ma attraverso il profeta Geremia il Signore dice ancora: “Io conosco i progetti che ho fatto a vostro riguardo, progetti di pace e non di sventura, per concedervi un futuro pieno di speranza. Voi mi invocherete e ricorrerete a me e io vi esaudirò. Mi cercherete e mi troverete, perché mi cercherete con tutto il cuore; mi lascerò trovare da voi”(29,11-12). E’ con questo sguardo di fede che vogliamo leggere e interpretare gli avvenimenti di questo difficile 2021.
La prima riflessione voglio dedicarla a leggere con questo sguardo di fede il rapporto tra sofferenza ed esercizio della carità che in questo anno si sono relazionati in maniera così intensa e inimmaginabile. Se tante attività ecclesiali si sono rallentate per motivi di prudenza e a causa di norme sanitarie restrittive, non si è mai fermata, ed anzi si è accentuata a tutti i livelli, l’attività caritativa da parte della Caritas diocesana, delle Caritas diffuse sul territorio, delle San Vincenzo e di tante associazioni di ispirazione cristiana o laica che hanno incentivato il loro impegno e il loro servizio verso i più bisognosi. E’ vero che in molti casi, sia per prudenza che per impossibilità, è venuto meno l’apporto dei volontari più anziani, ma possiamo ben dire che nessuno è stato abbandonato a se stesso e sia pure con fatica, non sono mancati esempi molto belli di servizio generoso al prossimo.
Di fatto i servizi si sono riorganizzati in base alle norme sanitarie; si sono attivati per raggiungere fasce di persone che precedentemente non avevano bisogno di sostegno; ma si è pure evidenziato come sia indispensabile e sempre più necessaria quella formazione permanente e quel supporto motivazionale senza il quale si rischia di fare molte cose, ma di non riuscire più a trasmettere il perché si fanno. Ciò chiede a tutti di non fermarci solo al fare, ma di puntare ancor più decisamente sulla “educazione” e sulla “formazione” alla carità per non lasciarci tentare dall’efficientismo nei servizi che si offrono, e perdere di vista la loro qualità umana e cristiana; cioè quella vitalità umana e soprannaturale che deve sempre contraddistinguere l’operare da parte della Chiesa.
Solo questo permette di avvicinare chi soffre con lo spirito giusto; e cioè con piena umanità e profondo spirito di fede che permette di riconoscere Gesù presente in ogni persona che soffre e di manifestare nel proprio servizio lo stesso Signore Gesù che, come nell’Ultima Cena, si china davanti ai suoi per lavare loro i piedi. Solo in questo modo si può essere “buoni samaritani” gli uni per gli altri: chi serve verso chi viene aiutato e chi viene aiutato verso chi serve.
Per questo sviluppo di partecipazione caritativa non possiamo che lodare e ringraziare il Signore, perché quanto è stato fatto è dimostrazione concreta della forza rinnovatrice della carità.
Una seconda riflessione riguarda la partecipazione alla vita della comunità cristiana nei vari servizi che tradizionalmente vengono svolti nell’ambito della catechesi e delle usuali attività tipiche della vita ecclesiale.
Quando improvvisamente ci siamo trovati nell’impossibilità di continuare le attività di catechesi, di vita oratoriale, di formazione in presenza per ragazzi, giovani, adulti e per i fidanzati in preparazione del matrimonio, di accompagnamento e di intrattenimento comunitario, dopo un primo momento di smarrimento, ci si è attrezzati nelle forme più impensabili per raggiungere il più possibile tutti; si è diventati esperti della comunicazione on linee e si sono moltiplicati i contatti a distanza. Una acquisizione che deve diventare patrimonio condiviso è che l’annuncio del Vangelo deve passare attraverso tutte le possibili forme di comunicazione perché la Parola di Dio possa “correre” e raggiungere tutti.
Se da una parte la necessità di servirci dei più moderni mezzi di comunicazione, è una opportunità che non dovremo mai più abbandonare, dall’altra parte ci si è pure accorti che una cosa è l’incontro personale e altra cosa è il contattarci solo a distanza. Da qui la necessità di favorire e di custodire ogni relazione personale, come cifra e premessa indispensabile per una seria azione evangelizzatrice. Che la relazione è lo strumento prezioso di ogni crescita comunitaria lo si è visto in maniera evidente quando la pandemia ha rallentato la propria morsa: là dove, all’interno della comunità ecclesiale, le relazioni sono state custodite, la gente “è ritornata”; là dove invece siamo andati avanti sull’onda di ciò che è sempre stato fatto, solo come ripetizione di gesti e di appuntamenti tradizionali, si sono manifestati dei vuoti enormi che non possono non preoccuparci per il futuro della nostra vita comunitaria.
Stasera vogliamo ringraziare il Signore per la fantasia che ha animato sacerdoti e fedeli e intere comunità nel desiderio di andare oltre i limiti fisici impostici dalle norme sanitarie, ricorrendo a strumenti innovativi; ma vogliamo pure ringraziare il Signore per averci fatto toccare con mano il valore di quella relazione interpersonale di cui Gesù è stato maestro nel suo fermarsi ad ascoltare le singole persone, nel voler “toccare” fisicamente chi aveva bisogno della sua parola di salvezza e della sua azione risanatrice, tanto che, come dice Luca, “tutta la folla cercava di toccarlo, perché da lui usciva una forza che guariva tutti”(Lc 6,19).
Proprio questa “forza che guariva tutti”, ci permette di soffermarci su un terzo tema che vogliamo leggere nell’ottica della fede e che riguarda la partecipazione liturgica e la preghiera in questo tempo di pandemia. Dopo i mesi di forzata chiusura delle nostre chiese con l’impossibilità di partecipare alle celebrazioni liturgiche, quando queste sono ritornate ad essere accessibili, come già accennato, la partecipazione dei fedeli è calata in maniera più che evidente. Sicuramente hanno giocato la paura del contagio, come l’essersi abituati a seguire le celebrazioni da casa, davanti ad uno schermo, tanto da dover pensare ad una specie di disaffezione rispetto alla partecipazione diretta e personale alle azioni liturgiche. Tutto questo costituisce una sfida che non possiamo e non dobbiamo disattendere.
Infatti, sappiamo bene che l’azione salvifica di Dio nei confronti dell’uomo ruota intorno al grande mistero dell’incarnazione: il Figlio di Dio si è incarnato; è diventato uomo come noi per la sua nascita dalla Vergine Maria. In Gesù si è manifestato il volto del Dio invisibile; nella sua carne la nostra stessa umanità è stata innalzata ad una altezza incomparabile, e proprio l’umanità del Signore è stata ed è mediazione indispensabile perché anche noi possiamo essere salvati.
Da qui deriva tutta la sacramentalità affidata alla Chiesa: i sacramenti sono segni e strumenti di grazia che ci mettono in comunicazione diretta con Dio; segni fatti di gesti, di azioni, di parole e di elementi che fanno parte della concretezza della vita di ogni giorno, come l’acqua, il pane, il vino e l’olio di cui ci serviamo per celebrare i sacramenti e che esigono una relazione diretta tra la persona che li riceve e il mistero d’amore con cui il Signore ci viene incontro nella persona dei ministri che li amministrano.
La pandemia ha messo in discussione tutto questo: la celebrazione delle Messe sta vedendo una riduzione della presenza dei fedeli; lo stesso vale per la celebrazione del sacramento della Confessione; abbiamo moltiplicato il numero delle celebrazioni di Cresime e di prime Comunioni per evitare “assembramenti”, compromettendo però la valenza comunitaria delle nostre celebrazioni, che hanno finito per riguardare i diretti interessati, a scapito dell’intera comunità cristiana.
Nello stesso tempo, queste difficoltà hanno offerto l’occasione per dare nuovo impulso alla preghiera personale e alla preghiera fatta in famiglia che negli ultimi anni è stata fortemente trascurata, quasi che la preghiera liturgica fosse sostitutiva di ogni altro tipo di rapporto con Dio. Se nelle nostre famiglie, forse si prega di più insieme, ringraziamone il Signore; se questo ancora non avviene, riscopriamone il valore e la bellezza; e soprattutto mettiamo ogni nostro impegno a non scadere nel “privato” anche nel campo della preghiera. C’è bisogno della preghiera individuale, ma c’è bisogno anche della preghiera comunitaria; c’è bisogno di coltivare il nostro rapporto intimo con il Signore, ma c’è altrettanto bisogno di stringerci a lui insieme ai fratelli e sorelle nella famiglia dei figli di Dio, lasciandoci “toccare” di nuovo dalla forza del Signore Gesù che vuole guarirci tutti, con la medicina del suo amore.
Anche per questo possiamo e dobbiamo ringraziare Dio, facendo nostre le parole rivolte da Gesù al Padre celeste: “Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli”(Mt 11,25). Facciamoci piccoli e nella semplicità anche noi saremo raggiunti dalla beatitudine dei “poveri in spirito”! Amen.