“Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù”.
Per una spiritualità nuziale del sacerdozio.
(Fil 2,5-11; Ef 5,21-23)
Pisa San Pio X – 30 settembre 2021
La proposta formulata dalla Commissione del Consiglio presbiterale per i Ritiri del clero diocesano, quest’anno presenta alla nostra riflessione una immagine cristologica che solo da qualche decennio è stata valorizzata soprattutto a partire dalla Esortazione apostolica di S. Giovanni Paolo II “Pastores dabo vobis” su “La formazione dei sacerdoti nelle circostanze attuali” (25 marzo 1992) dopo il corrispondente sinodo dei vescovi. L’immagine è quella del Cristo sposo della Chiesa.
Credo che valga la pena rileggere insieme quanto Papa Giovanni Paolo II scrisse al numero 22 della “Pastores dabo vobis”: “Il donarsi di Cristo alla Chiesa, frutto del suo amore, si connota di quella dedizione originale che è propria dello sposo nei riguardi della sposa, come più volte suggeriscono i sacri testi. Gesù è il vero sposo che offre il vino della salvezza alla chiesa (cf. Gv 2,11). Lui, che è il “capo della chiesa … e il salvatore del suo corpo” (Ef 5,23), “ha amato la chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola per mezzo del lavacro dell’acqua accompagnato dalla parola, al fine di farsi comparire davanti la sua chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata”(Ef 5,25-27).
“La chiesa è sì il corpo, nel quale è presente e operante Cristo capo, ma è anche la sposa, che scaturisce come nuova Eva dal costato aperto del redentore sulla croce: per questo Cristo sta “davanti” alla chiesa, “la nutre e la cura”(Ef 5,29) con il dono della sua vita per lei. Il sacerdote è chiamato ad essere immagine viva di Gesù Cristo sposo della chiesa: certamente egli rimane sempre parte della comunità come credente, insieme a tutti gli altri fratelli e sorelle convocati dallo Spirito, ma in forza della sua configurazione a Cristo capo e pastore si trova in tale posizione sponsale di fronte alla comunità. “In quanto ripresenta Cristo capo, pastore e sposo della chiesa, il sacerdote si pone non solo nella chiesa , ma anche di fronte alla chiesa”.
“E’ chiamato pertanto, nella sua vita spirituale a rivivere l’amore di Cristo sposo nei riguardi della chiesa sposa. La sua vita deve essere illuminata e orientata anche da questo tratto sponsale, che gli chiede di essere testimone dell’amore sponsale di Cristo, di essere quindi capace di amare la gente con cuore nuovo, grande e puro, con autentico distacco da sé, con dedizione, piena, continua e fedele, e insieme con una specie di “gelosia” divina (cf. 2Cor 11,2), con una tenerezza che si riveste persino delle sfumature dell’amore materno, capace di farsi carico dei “dolori del parto” finché “Cristo non sia formato” nei fedeli (cf. Gal. 4,19)”.
Nei documenti del Concilio Vaticano II si parla più volte di Cristo sposo della Chiesa che egli ha acquistata col suo sangue e che ama come sposo fedele. Una relazione d’amore che dà forma all’amore coniugale tanto che in Gaudium et Spes si parla della famiglia cristiana che nasce dal matrimonio “come immagine e partecipazione del patto d’amore del Cristo e della Chiesa” così da rendere “manifesta a tutti la viva presenza del salvatore del mondo e la genuina natura della Chiesa, sia con l’amore, la fecondità generosa, l’unità e la fedeltà degli sposi con l’amorevole cooperazione di tutti i suoi membri”(48).
Se a proposito del matrimonio la partecipazione degli sposi al patto d’amore tra Cristo e la Chiesa viene esplicitamente affermato dal Concilio, per quanto riguarda il presbiterato ci si sofferma piuttosto, in maniera assai articolata, in Presbyterorum Ordinis (16) sul celibato abbracciato e considerato come una grazia “per aderire a Cristo con cuore non diviso” disponendosi “meglio a ricevere una più ampia paternità in Cristo”.
E’ ovvio che questa adesione a Cristo che è di fatto una reale configurazione a Lui, non può non “segnare” il presbitero con la identità “sponsale” del Cristo nei confronti della Chiesa. Da qui deriva dunque l’esplicitazione fatta da San Giovanni Paolo II a proposito del presbitero che è chiamato a modellare la sua esistenza su Cristo stesso come paradigma del proprio vivere e del proprio agire anche con la categoria della sponsalità.
Fatta questa premessa possiamo dunque metterci in ascolto di quanto l’apostolo Paolo scrive ai Filippesi (2,5-11) e agli Efesini (5,21-23ss).
Il testo di Fil 2,5-11 è l’inno cristologico con cui preghiamo ogni settimana nei primi vespri della domenica e che ha il suo incipit nell’invito che Paolo rivolge ai cristiani di Filippi: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù”(v.5).
Il termine “sentimenti” non è qualcosa che riguarda la sfera delle emozioni o delle sensazioni; è bensì qualcosa che riguarda ciò che sta al centro del cuore e della volontà, della sensibilità e della conoscenza che ciascuno percepisce nel profondo del proprio essere; cioè riguarda ciò che dà senso e significato ai pensieri, alle azioni e alle scelte che ciascuno va facendo nel proprio itinerario di vita. Non è dunque qualcosa di superficiale o di banalmente scontato, bensì attiene e attinge a quel “mistero” che siamo noi stessi, in ragione della nostra origine che affonda le sue radici nel mistero stesso di Dio creatore, redentore e santificatore.
Avere gli stessi sentimenti di Cristo Gesù, significa dunque riconoscere nella nostra vita di cristiani e ancora di più di preti o di diaconi, cioè di persone segnate dal Cristo pastore, servo, maestro e sposo della Chiesa, le sue stesse caratteristiche a seconda dei doni di grazia sacramentale che ciascuno ha ricevuto.
In altre parole, ciò che Paolo scrive nel suo inno è paradigmatico rispetto alla nostra identità; cioè modella, dà forma e contenuto al nostro essere e alla nostra identità, alla nostra esistenza e alle nostre scelte quotidiane chiamate a “riprodurre” in qualche modo ciò che è proprio del Signore stesso, il quale “pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce”(vs 6-8).
Nel mistero dell’incarnazione il Figlio di Dio ha assunto la nostra umanità, si è fatto “simile agli uomini”, o come diciamo nella professione di fede “si è fatto uomo” pur rimanendo Dio. Si tratta di una “unione” che ha avuto il suo culmine sulla croce, quando il Verbo incarnato ha accettato di subire la sorte di ogni uomo, frutto amaro del peccato, cioè la morte. Come tante volte abbiamo sentito ripetere, non si è trattato di un incidente di percorso, bensì della presa in carico della nostra umanità in tutta la sua bellezza e con tutti i suoi limiti; e la morte, umanamente parlando, è il limite invalicabile che nessuno può evitare. Se ciò è condizione inevitabile per ogni creatura, non era però un limite che riguardasse il Figlio di Dio, fino al momento della sua incarnazione. Ecco in senso Paolo afferma che Cristo Gesù “umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce” (Fil.2,8).
Questo è il momento delle “nozze dell’Agnello immolato” a cui si riferisce Giovanni nell’Apocalisse quando descrive la visione “dell’Agnello, in piedi, come immolato”(5,6), al quale si rivolge il canto dei ventiquattro anziani: “Tu sei degno di prendere il libro e di aprirne i sigilli, perché sei stato immolato e hai riscattato per Dio, con il tuo sangue, uomini di ogni tribù, lingua, popolo e nazione, e hai fatto di loro, per il nostro Dio, un regno di sacerdoti, e regneranno sopra la terra”(5,9-10). E’ poi significativo che Giovanni ci mostri l’Agnello immolato che spezza i sigilli che nessuno poteva aprire.
Nel sacrificio della croce, Gesù – Agnello immolato – spezza ogni legame di oppressione, scioglie le catene inique, vince ogni peccato e il male che grava sul mondo e che oppone l’uomo a Dio, agli altri uomini e all’intero universo, e sancisce definitivamente il patto della nuova ed eterna alleanza, annunciato e anticipato durante l’ultima Cena con l’offerta del pane e del calice: “Questo è il mio corpo, che è dato per voi; fate questo in memoria di me (…) Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che è versato per voi”(Lc 22,19-20).
La croce, in cui si manifesta la profondità dell’annientamento e dello svuotamento di sé del Cristo, nel dono totale della propria vita al Padre e ai fratelli, anche simbolicamente, rappresenta nel corpo di Gesù fissato dai chiodi al centro dei bracci del legno innalzato sul Calvario, il punto di convergenza verticale, fra l’uomo e Dio, e orizzontale, dell’uomo con gli altri uomini, l’unione indissolubile che niente e nessuno potrà mai spezzare: davvero le nozze dell’Agnello immolato con l’intera umanità; quella unione nella quale il Signore assume in sé, nel suo corpo mortale, ogni umana creatura che da quel momento non potrà mai più essere separata da lui e che così diventa partecipe della sua vittoria sul peccato e sulla morte, mediante la sua risurrezione. “Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni altro nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: “Gesù Cristo è Signore!” a gloria di Dio Padre”(5,9-11).
Se l’alleanza pasquale che Cristo ha realizzato tra il Padre celeste e l’umanità riguarda ogni creatura, e in particolare coinvolge nella profondità del loro essere quanti sono stati rigenerati dall’acqua e dallo Spirito nel sacramento del Battesimo, tuttavia ha una specifica valenza per noi segnati dal sacramento dell’Ordine che ci ha configurato a Cristo sacerdote, maestro, pastore, servo e sposo della Chiesa.
Anche noi, dunque, partecipiamo alla nuzialità del Cristo nei confronti della Chiesa. Ma questa partecipazione che cosa comporta? Quale significato deve avere nella nostra spiritualità e nel nostro stile di vita?
Per rispondere a queste domande ci viene incontro il testo della lettera agli Efesini 5,21-23: “Nel timore di Cristo, siate sottomessi gli uni agli altri: le mogli lo siano ai loro mariti, come al Signore; il marito infatti è capo della moglie, così come Cristo è capo della Chiesa, lui che è salvatore del corpo”).
Sappiamo bene che in questo brano e nei versetti che seguono fino al versetto 33, il termine “come” ritorna in maniera martellante per ben sette volte a ritmare il rapporto fra marito e moglie sul rapporto tra Cristo e la Chiesa. Se questo “come” parla in maniera esplicita del rapporto coniugale, altrettanto parla in maniera esplicita del nostro rapporto di ministri ordinati con la Chiesa proprio per la nostra configurazione a Cristo.
Credo che sia esperienza che tutti noi abbiamo fatto nella preparazione dei nubendi al matrimonio, che quando approfondiamo con loro il testo paolino del quinto capitolo della lettera agli Efesini, mentre si legge il testo è facile percepire la meraviglia ed anche la contrarietà che viene a dipingersi soprattutto sul volto delle donne presenti, non meno di qualche cenno di pretesa superiorità da parte degli uomini nei confronti della propria fidanzata. Quando poi approfondiamo il testo ci si accorge che la comprensione del testo cambia, perché ci si rende conto che l’Apostolo Paolo, senza sovvertire, almeno apparentemente, la situazione sociale del suo tempo di evidente preminenza dell’uomo sulla donna, in realtà sta buttando all’aria l’ordine costituito per indicare un nuovo ordine, quello della donazione di sé dell’uno all’altra, nella più completa abnegazione personale di ciascuno; in particolare dell’uomo verso la donna, ad immagine di Cristo nei confronti della Chiesa suo corpo.
A questo punto le relazioni interpersonali vengono illuminate da una luce completamente nuova, quella che abbiamo visto risplendere nel testo di Filippesi 2 e che emana dallo “svuotamento” di sé da parte del Figlio di Dio che dona la sua vita in una morte obbrobriosa per obbedienza all’amore del Padre per l’umanità. I “sentimenti”, le motivazioni, sono quelle enunciate nel testo della lettera ai Filippesi, che trovano una piena esemplificazione nel testo di Efesini 5 e che ci illuminano sulla “spiritualità” nuziale che come ministri ordinati siamo chiamati ad accogliere come dono, ad elaborare interiormente nel nostro cuore e nella nostra mente e ad applicare alla nostra vita di tutti i giorni.
Il contesto che Paolo mette in evidenza è quello che egli introduce con l’espressione “Nel timore di Cristo siate sottomessi gli uni agli altri”(v.21). Non c’è qualcuno che sta sopra e qualcun’ altro che soggiace al prossimo: c’è una stessa dignità per tutti e tutti siamo chiamati a confrontarci con Cristo con il “timore” che è dono dello Spirito Santo, timore e preoccupazione a non andare fuori strada, portati dall’orgoglio di sentirci più degli altri – mai dimenticando la triplice concupiscenza di cui parla Giovanni quando afferma: “Non amate il mondo, né le cose del mondo! Se uno ama il mondo, l’amore del Padre non è in lui; perché tutto quello che è nel mondo – la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita – non viene dal Padre, ma viene dal mondo. E il mondo passa con la sua concupiscenza; ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno”(1Gv 2,15-17).
Essere a capo – “il marito è capo della moglie, così come Cristo è capo della Chiesa, lui che è salvatore del corpo”(v.23) – non significa comandare, pretendere o assurgere addirittura ad una “padronanza” sull’altro quali capi indiscussi, bensì vuol dire essere disposti a mettersi in gioco fino a dare la propria vita per chi si ama. Cosa che Cristo ha fatto e che chiede anche a noi di fare. E’ vero che nella comunità ecclesiale il ministro ordinato ha dei compiti e una missione di guida che non possono essere disattesi, ma è anche vero che guidare non significa esercitare un potere senza controllo di alcuno, o pretendere che gli altri siano a nostro servizio.
Non è un discorso facile. Gesù stesso ha dovuto ripeterlo più volte ai suoi apostoli. L’evangelista Luca lo fa ricorrere per ben due volte nel testo del suo vangelo: dopo il secondo annuncio della passione, dice infatti che “nacque una discussione tra loro, chi di loro fosse più grande. Allora Gesù, conoscendo il pensiero del loro cuore, prese un bambino, se lo mise vicino e disse loro: Chi accoglierà questo bambino nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato. Chi infatti è il più piccolo fra tutti voi, questi è grande”(Lc 9,46-48).
E’ evidente che queste parole di Gesù non furono sufficienti per convincere i Dodici, se Luca pone di nuovo la stessa discussione addirittura nel contesto dell’ultima Cena: “Nacque tra loro anche una discussione: chi di loro fosse da considerare più grande. Egli disse: I re delle nazioni le governano, e coloro che hanno potere su di esse sono chiamati benefattori. Voi però non fate così; ma chi tra voi è più grande diventi come il più giovane, e chi governa come colui che serve. Infatti chi è più grande, chi sta a tavola o che serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve”(Lc 22 24-27).
Non dobbiamo neppure dimenticare il gesto compiuto da Gesù durante l’Ultima Cena che ci viene narrato da Giovanni: la lavanda dei piedi che si riassume nelle parole che Gesù pronuncia a commento di quanto aveva fatto – e Gesù aveva eseguito il compito dei servi e degli schiavi, cioè quello di lavare i piedi ai commensali – “Capite quello che ho fatto per voi? Voi mi chiamate il Signore e il Maestro, e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi (…) Sapendo queste cose, siete beati se le mettete in pratica”(Gv 13,12-17).
Tutto questo ci chiede di esaminarci circa il nostro modo di guidare la comunità cristiana che ci è stata affidata. Stiamo davvero guidando la nostra gente con l’atteggiamento dello sposo-Gesù, che per amore e con amore si pone ai piedi dei suoi lavando loro i piedi? Il nostro servizio ecclesiale è donazione d’amore o a volte scade in esercizio di potere? Perché questo avvenga non è necessario arrivare a dire: “Questa è casa mia! Qui comando io!” come diceva una canzone di qualche anno fa’! Si può affermare la nostra volontà di dominio anche senza dirlo, magari isolando e mettendo a lato chi la pensa diversamente da noi; oppure imponendo le nostre decisioni senza chiedere il parere altrui. E ciò si verifica anche quando disertiamo o marginalizziamo quegli organi di partecipazione voluti dalla Chiesa e che dovrebbero offrirci aiuto nell’esercizio del nostro compito di guida. Basta pensare alla inesistenza o alla inconsistenza dei Consigli Pastorali e dei Consigli per gli Affari Economici! (Salvo poi lamentarci perché la gente gira alla larga dalla vita parrocchiale o diventa sempre più parca e severa nella contribuzione economica per i bisogni della Chiesa!). A questo proposito, altro segno che fa la spia di un atteggiamento per niente “nuziale”, come del resto avviene anche in certe case in cui la donna è tenuta in sott’ ordine, è la mancanza di rendicontazione di quanto entra ed esce dalle casse della parrocchia con una gestione del denaro tipicamente padronale e non certo di condivisione familiare, per cui non si rende conto di niente e se qualcuno fa qualche domanda che ci sembra indiscreta o mettere in dubbio la correttezza della nostra amministrazione, subito ci si sente offesi e si reagisce male.
In realtà però, al di là di questi “segni” molto concreti ed anche in qualche modo “terra terra” , ancora più pesante è quella presa di distanza dalla gente che si rivela nella mancanza di contatti veri, di relazioni familiari e di condivisione soprattutto con chi si trova nel bisogno. “I mariti hanno il dovere di amare le proprie mogli come il proprio corpo: chi ama la propria moglie, ama se stesso. Nessuno infatti ha mai odiato la propria carne, anzi la nutre e la cura, come anche Cristo fa con la Chiesa, poiché siamo membra del suo corpo”(Ef 5,28-30).
Nutrire e curare, sono due verbi che dicono la tenerezza del rapporto “nuziale” fra Cristo e la Chiesa, dando a noi l’immagine da imitare nel nostro rapporto con la nostra gente.
Sappiamo bene che la “cura pastorale” sta diventando sempre più complicata. Forse un tempo, o almeno in qualche zona, il campanello della canonica suonava ininterrottamente e non solo per chiedere qualche certificato, o aiuti materiali, ma anche perché c’era chi desiderava raccontarci i propri problemi e le proprie difficoltà o chiedeva di confessarsi. Io non saprei dire con quanta frequenza la gente continua a venire a cercarci nelle parrocchie; so però chi è che viene e quale tipologia di richieste ricevo quando faccio udienze; ma se in una parrocchia il campanello non suona mai o suona sempre più raramente, forse c’è da domandarsi il perché, e sicuramente non si può pensare che così siamo più liberi e tranquilli; bensì c’è da domandarsi, nella situazione culturale, sociale, ed ecclesiale che stiamo vivendo oggi, in che modo sia possibile riprendere, riallacciare i contatti e farli crescere in quantità e in qualità perché non ci troviamo alla fine solo a fare i custodi di edifici sacri ridotti più a musei che a case abitate dalla comunità che fra l’altro dà il nome a questi stessi edifici: chiesa, cioè assemblea del popolo di Dio.
L’apostolo Paolo esorta ancora: “Voi mariti, amate le vostre mogli, come anche Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola con il lavacro dell’acqua mediante la parola e per presentare a se stesso la Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata”(Ef 5,25-27).
In queste parole mi sembra di trovare il senso della espressione usata da San Giovanni Paolo II quando dice che il presbitero “in quanto rappresenta Cristo capo, pastore e sposo della chiesa, si pone non solo nella chiesa, ma anche di fronte ad essa”. Ciò vuol dire che il prete deve essere “capace di amare la gente con cuore nuovo, grande e puro, con autentico distacco da sé, con dedizione piena, continua e fedele, e insieme con una specie di gelosia divina, con una tenerezza che si riveste persino delle sfumature dell’affetto materno, capace di farsi carico dei dolori del parto finché Cristo non sia formato nei fedeli”. Tutto questo esige la presa di coscienza della responsabilità che ci compete e che deve tenerci perennemente inquieti, con una inquietudine soprannaturale che non tollera pigrizie, approssimazioni o adattamenti al minimo; che non si contenta solo di aver fatto ciò che fa parte degli adempimenti burocratici o di essere stati inappuntabili rispetto agli impegni dettati dal calendario liturgico o catechistico, ma che non cessa di farci chiedere se davvero abbiamo fatto quanto dovevamo con tutto l’amore di cui siamo capaci, e con tutta la dedizione con cui il Signore Gesù si è donato al compimento della nostra salvezza.
Spesso succede – e magari ce ne rendiamo conto a distanza di anni – che proprio i momenti in cui ci sembrava di essere inconcludenti o tarpati dalle circostanza nella efficacia del nostro servizio pastorale, ma abbiamo continuato ad offrire al Signore e ai fratelli tutto l’amore di cui eravamo capaci, alla fine ci accorgiamo che proprio in quei momenti, Dio ha operato da par suo con la pienezza della sua potenza d’amore. Ed è certo che se esortiamo la nostra gente, spesso sfiduciata, ad andare avanti nel bene e a non fermarsi di fronte alle inevitabili sconfitte della vita, proprio queste persone, desiderano vedere in noi la realizzazione di quanto indichiamo loro: la serenità del cuore, il riconoscere che Dio opera sempre per il bene di tutti, il sorriso sul volto, la fiducia in lui e nei fratelli sono i segni più eloquenti che permettono a chi ci sta davanti di riconoscere all’opera in noi la validità e la bellezza di ciò che noi proponiamo loro.
Anche questo è esercizio di quella carità pastorale di cui ha parlato il Concilio Vaticano II e che Giovanni Paolo II ha ribadito al numero 23 della Pastores dabo vobis: “Il principio interiore, la virtù che anima e guida la vita spirituale del presbitero in quanto configurato a Cristo capo e pastore è la carità pastorale, partecipazione della stessa carità pastorale di Gesù Cristo; dono gratuito dello Spirito santo e nello stesso tempo compito e appello alla risposta libera e responsabile del presbitero.
“Il contenuto essenziale della carità pastorale è il dono di sé, il dono totale di sé alla chiesa, a immagine e in condivisione con il dono di Cristo (…) non è soltanto quello che facciamo, ma il dono di noi stessi che mostra l’amore di cristo per il suo gregge. (…) Il dono di sé, radice e sintesi della carità pastorale, ha come destinataria la chiesa. Così è stato di Cristo che ha amato la chiesa e ha dato se stesso per lei, così deve essere il sacerdote. (…) Il sacerdote che accoglie la vocazione al ministero, è in grado di fare di questo una scelta di amore, per cui la chiesa e le anime diventano il suo interesse principale e, con tale spiritualità concreta, diventa capace di amare la chiesa universale e quella porzione di essa, che gli è affidata, con tutto lo slancio di uno sposo verso la sposa.
“Il dono di sé alla chiesa la riguarda in quanto essa è il corpo e la sposa di Gesù Cristo. Per questo la carità del sacerdote si riferisce primariamente a Gesù Cristo: solo se ama e serve Cristo capo e sposo, la carità diventa fonte, criterio, misura, impulso dell’amore e del servizio del sacerdote alla chiesa, corpo e sposa di Cristo”.
Sappiamo bene che c’è una grande differenza tra essere conviventi ed essere sposati. Che non accada anche a noi di relazionarci con la chiesa sposa di Cristo da conviventi o separati sotto lo stesso tetto. Verrebbe meno quella forza propulsiva che è frutto e dono dell’amore che viene dall’alto e che permette di non fermarci mai a considerare come difficoltà insuperabili “macchie, rughe o cose simili” di cui parlava l’apostolo Paolo, per contribuire invece, con la nostra donazione d’amore, a suscitare altre risposte d’amore perché anche la Chiesa del nostro tempo possa presentarsi al mondo e agli uomini d’oggi così come proclama l’Apocalisse quando Giovanni udì la “voce di una folla immensa, simile a fragore di grandi acque e a rombo di tuoni possenti, che gridavano: Alleluia! Ha preso possesso del suo regno il Signore, il nostro Dio, l’Onnipotente. Rallegriamoci ed esultiamo, rendiamo a lui gloria, perché sono giunte le nozze dell’Agnello; la sua sposa è pronta. (…) Beati gli invitati alle nozze dell’Agnello! (Ap. 19,6-8).
Noi siamo allo stesso tempo, gli invitati e i protagonisti di queste nozze divine: siamo perciò investiti di questa beatitudine da vivere insieme ai nostri fratelli e sorelle e da testimoniare loro con gioia e gratitudine per il dono immenso che ci è stato fatto grazie al dono dell’Ordine sacro che abbiamo ricevuto.