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Giornata per la Santificazione Sacerdotale 

Chiesa di Santa Caterina d’Alessandria, 11 giugno 2021

Sfogliando una rivista di spiritualità pastorale, il numero 3 del 2021 di Presbyteri, ho trovato un articolo intitolato: “Il prete crede in Dio?”. Evidentemente si tratta di un titolo provocatorio, ma fino ad un certo punto, perché anche noi preti, abbiamo costantemente bisogno di interrogarci se e come stiamo vivendo le tre virtù teologali che ci contraddistinguono come cristiani: la fede, la speranza e la carità. L’articolo è strutturato intorno a sette verbi che vengono messi in relazione con la figura del prete e che ci permettono di fare l’esame di coscienza circa quello che il prete dice, sente, teme, scrive, tace, vuole e vive, e che in qualche modo offrono la possibilità di misurare le sue virtù teologali. E’ ovvio che la successione di questi verbi può essere diversa a seconda che si desideri sottolineare maggiormente un aspetto rispetto ad un altro.

Permettetemi di iniziare la mia riflessione da una costatazione che riguarda il nostro rapporto interpersonale, o più precisamente le nostre relazioni. Intendo dire quelle che avete con me come vescovo e che io ho con voi, che poi sono anche quelle che ciascuno ha con i propri fratelli preti o diaconi. Volutamente lascio da parte i nostri rapporti con i nostri fedeli laici, uomini e donne, ma potremmo parlare anche delle relazioni che abbiamo con i religiosi e le religiose con cui condividiamo il nostro servizio a Dio e alla Chiesa.

Sono ormai giunto al diciottesimo anno di servizio episcopale fra Tivoli e Pisa e sono migliaia gli incontri che ho avuto con preti e diaconi, singolarmente e comunitariamente, come sono innumerevoli gli incontri che ho avuto nelle udienze settimanali con preti, diaconi, religiosi religiose e laici. Gli argomenti e i motivi che li hanno occasionati sono i più diversi e i meno prevedibili: dai tetti da restaurare o da rifare ex novo, ai problemi di tipo amministrativo; dalle varie beghe nei rapporti con i parrocchiani e dei parrocchiani con il proprio parroco a problemi di tipo giuridico e pastorale; dal fissare le date delle Cresime e di altre celebrazioni liturgiche agli appuntamenti per incontrare i Consigli pastorali parrocchiali o di Unità pastorale. Molto più difficile è che si venga dal vescovo per condividere il proprio cammino spirituale o che ci si rivolga a lui per avere consigli su come percorrere la via della santità.

E’ vero che anche il mettere in agenda una data per le Cresime è sempre occasione per scambiare qualche parola, per chiederci reciprocamente come si sta e se ci sono preoccupazioni particolari, però a conti fatti sono più le motivazioni di ordine pratico pastorale e gestionale che non quelle più profonde di ordine spirituale o di ricerca di serenità nel vivere a pieno la propria umanità, che occasionano i nostri incontri. Tante volte, le cose più importanti emergono solo se ci si attarda a parlare non solo di situazioni legate alla nostra “professione” di preti o di diaconi, bensì quando ci si mette a parlare di noi stessi e del nostro cammino di vita.

A questo punto ci si accorge che i verbi che ho citato all’inizio non sono peregrini, bensì individuano spaccati di vita personale e comunitaria che a volte non abbiamo il coraggio di affrontare chiaramente, perché ci obbligano prima di tutto a metterci a nudo di fronte a noi stessi, oltre che davanti al Signore e alla sua Chiesa.

La prima riflessione è sul nostro dire. 

Tutti noi siamo “ministri della Parola”, cioè siamo al servizio della Parola di Dio, e le parole sono lo strumento necessario e indispensabile per comunicare il Verbo della Vita. Sappiamo bene che il nostro dire, può tradurre e incarnare il messaggio di Dio nella realtà di vita della nostra gente, come può anche “tradirlo” se le parole che pronunciamo non attingono al profondo del mistero che abbiamo accolto in noi. L’inizio della prima lettera di San Giovanni è sicuramente il paradigma a cui fare riferimento: “Quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita,(…) quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. E la nostra comunione è con il Padre e con il Figlio suo, Gesù Cristo”(1,1-3).

Dire Dio, non può essere solo la ripetizione esatta di ciò che la teologia afferma a proposito; sarebbe troppo poco; così come esercitare il ministero della Parola di Dio non è soltanto saper citare in maniera appropriata brani della Scrittura. “Dire Dio” e annunciare la sua Parola si colloca prima di tutto nel nostro modo di esprimerci e nell’uso che facciamo del linguaggio. Quante volte ci rendiamo conto che anche solo con una parola fuori posto, possiamo pregiudicare l’ascolto di tutto il resto che diciamo con proprietà e convinzione! E, poi: quante parole inutili escono dalla nostra bocca! L’apostolo Pietro esorta: “Chi parla, lo faccia con parole di Dio!”(1Pt 4,11). Se è vero che ci verrà chiesto il conto di ogni parola pronunciata, quanta attenzione dobbiamo porre a ciò che diciamo! Per questo occorre una grande vigilanza su noi stessi. Gesù, nel suo insegnamento è estremamente severo: “Razza di vipere, come potete dire cose buone, voi che siete cattivi? La bocca infatti esprime ciò che dal cuore sovrabbonda. (…) Io vi dico: di ogni parola vana che gli uomini diranno, dovranno rendere conto nel giorno del giudizio; infatti in base alle tue parole sarai giustificato e in base alle tue parole sarai condannato “(Mt 12, 34-37).

Ancora sul dire del prete. E’ vero che i tempi sono cambiati, e che non c’è più tutta quell’attenzione che un tempo si aveva verso ciò che il prete diceva. “L’ha detto il prete!”, come anche si diceva: “Sbaglia anche il prete all’altare!” Non dimentichiamo però che anche oggi, anche chi non frequenta e non crede è comunque molto attento a ciò che diciamo e se c’è sempre qualcuno, come per Gesù, che è pronto a coglierci in fallo nelle parole che diciamo, c’è pure chi guarda al nostro linguaggio e al nostro dire, come punto di riferimento e metro di giudizio per le proprie scelte.

La seconda riflessione è sul sentire del prete.

La cultura di oggi è spesso la cultura del “mi sento” e del “non mi sento” e non solo a livello giovanile, perché anche gli adulti sottolineano la legittimità vera o presunta di ciò che percepiscono con il proprio sentimento. In altre parole si è molto attenti agli aspetti soggettivi, più che alla oggettività delle situazioni, con il rischio di lasciarsi portare dal sentimento, lasciando da parte il necessario coinvolgimento della razionalità. C’è dunque da domandarci: quale è il sentire del prete oggi? O meglio: quale è il mio sentire? Quali sono i parametri che io adopero per misurare le mie scelte più profonde? E’ ovvio che non si tratta di cercare soltanto “il giusto mezzo” con un piede da una parte e uno dall’altra, barcamenandoci tra sentimento e razionalità. Credo che lo sforzo più grande che dobbiamo fare oggi è quello di tenere davanti a noi con grande lucidità la prospettiva della Parola di Dio e l’esempio di Cristo Gesù che non solo fa la volontà del Padre suo, ma si china con misericordia sulle ferite delle persone che si rivolgono a lui per manifestare loro l’amore del Padre celeste. In questo modo vediamo che Gesù corregge anche quello che era il sentire comune del suo tempo e che non era in linea con il disegno salvifico di Dio.

Basta pensare alla presa di posizione di Gesù riguardo al tema del peccato e della sua punizione, quando gli si presentano alcuni “a riferirgli il fatto di quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici. Prendendo la parola, Gesù disse loro: Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. O quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Siloe e le uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo”(Lc 13, 1-5).

Il sentire comune non è spesso un buon sentire ed è comunque influenzato da molteplici fattori esterni. Basta pensare ai vari personaggi che hanno come mestiere quello di “influenzare” le opinioni correnti, determinando mode, stili di vita, modelli di comportamento che hanno pure un notevole peso specifico nelle formulazioni legislative, tanto da poter parlare di vere e proprie lobby culturali, sociali, politiche ed economiche, e persino religiose. 

Il nostro “sentire” deve misurarsi con tutti questi aspetti per non esserne strumentalizzati. Nello stesso tempo, per non venire strumentalizzati e usati indebitamente, non possiamo neppure rimanere impassibili e inchiodati alla pretesa oggettività delle norme senza provare a cogliere ciò che di buono sta crescendo nel cuore delle persone, che magari hanno bisogno di punti di riferimento perché ciascuno possa discernere ciò a cui il Signore lo chiama sulla via della santità. Un esempio di questa fatica a cui oggi siamo chiamati possiamo indicarlo nell’accompagnamento di quelle persone che si trovano in situazioni complesse sul piano affettivo, specificamente nell’ambito della vita matrimoniale, e che partendo dalla richiesta di ricevere la comunione siamo tenuti ad accompagnare in un discernimento tanto difficile quanto capace di liberare energie spirituali impensabili, al di là che poi sia possibile ricevere o no il sacramento dell’Eucaristia.

Una terza riflessione è sul temere del prete.

A questo proposito sembra di poter affermare che il panorama ecclesiastico del nostro tempo è abbastanza piatto, non perché, almeno qui da noi, ci sia di avere paura di chissà cosa, bensì perché c’è una specie di timore diffuso che ci rende timidi, poco propositivi, o soltanto ripetitivi di modelli pastorali ormai sorpassati, senza avere l’audacia di tentare con coraggio e con grande umiltà nuove strade e opportunità inedite.

Questo appiattimento diffuso ci rende diffidenti di fronte a prospettive nuove che non conosciamo; attendisti, nel senso che si aspettano soluzioni miracolistiche improbabili; poco presenti sia nelle relazioni sociali che culturali e rassegnati ad esercitare il ministero liturgico che ci è proprio, ma senza conoscere di fatto in maniera adeguata la situazione nella quale stiamo vivendo. Solo per esemplificare quanto sto dicendo, ho voluto confrontare alcuni dati che sono a nostra disposizione circa le nascite di bambini e il loro battesimo e circa i decessi e le esequie religiose in alcuni comuni della nostra diocesi. In questi ultimi anni il numero dei nati è circa la metà del numero dei morti. Un terzo circa dei nati non è stato battezzato, così come un quarto dei defunti sembra non aver avuto le esequie religiose. E’ ovvio che questi dati non possono non interrogarci circa la effettiva conoscenza della realtà nella quale stiamo operando pastoralmente. L’impressione è che qualche volta ci fa comodo, forse per paura, non sapere questi dati, perché di fronte a questa emergenza, in realtà, non sappiamo cosa fare.

Il coraggio potrebbe essere un altro nome della fede. L’opposto è la paura; una paura che paralizza e che impedisce la lucidità necessaria per rispondere alle sfide che sono in atto. Quando gli apostoli si trovarono sul mare in tempesta e la barca “era coperta dalle onde, e Gesù dormiva, si accostarono a lui e lo svegliarono dicendo: Salvaci Signore, siamo perduti! Ed egli disse loro: perché avete paura, gente di poca fede? Poi si alzò, minacciò i venti e il mare e ci fu grande bonaccia”(Mt 8,24-26). Il tema della paura e del timore ritorna molte volte negli insegnamenti di Gesù. Agli apostoli Gesù dice ancora: “Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima; abbiate paura piuttosto di colui che ha il potere di far perire nella Geènna e l’anima e il corpo”(Mt 10,28).

La paura è dunque una cattiva consigliera e sicuramente è un condizionamento da cui ci dobbiamo liberare. E non per una specie di orgoglio ipertrofico, bensì per la sicurezza che il Signore è sempre con noi, ogni giorno, fino alla fine del mondo. Una presenza discreta, ma reale, silenziosa, ma attiva, che può e vuole esercitare la sua forza e la sua potenza a misura della nostra umile disponibilità a fidarci delle promesse di Cristo alla sua Chiesa. Per questo, ad esempio, non dobbiamo temere di fronte alle nuove prospettive pastorali che il Papa ci sta indicando: se crediamo nello Spirito di Dio, dobbiamo lasciarci guidare da Lui, perché “questi sono figli di Dio, coloro che sono guidati dallo Spirito di Dio”(Rom 8,14).

Una quarta riflessione è su quello che il prete scrive.

Possiamo aggiungere al verbo scrivere anche il verbo leggere. Leggere e scrivere sono infatti due attività tra loro correlate che contraddistinguono in particolare l’attività culturale di ogni persona. Nessuno di noi è stato chiamato a svolgere una professione di tipo esclusivamente culturale, ma sicuramente ciascuno di noi si trova a dover scrivere: i notiziari parrocchiali sia in forma cartacea che in forma telematica ci chiedono di fornire degli scritti. Una buona preparazione delle omelie o di interventi formativi a vari livelli, ci obbliga a prendere appunti e a scrivere qualcosa.  Qualche volta succede che ci sentiamo spinti da una suggestione interiore al punto tale di scrivere non solo delle lettere, ma addirittura dei trattati data la lunghezza e l’ampiezza di ciò che fissiamo nero su bianco, senza magari chiederci se coloro a cui ci rivolgiamo sono in grado di stare dietro alle nostre riflessioni e al linguaggio che usiamo.

Non sempre ciò che scriviamo è poi davvero farina del nostro sacco. Spesso è più frutto di ciò che leggiamo qua e là più che non di una personale meditazione. E si vede assai bene quando mettiamo insieme testi grazie al taglia e incolla, o invece che sono frutto di una riflessione guidata dall’ascolto del Signore e dalla risposta che abbiamo maturato nella preghiera. 

Se però non tutti abbiamo la capacità di pubblicare libri, tutti quanti abbiamo il dovere dello studio, della meditazione e della riflessione orante. E qui possiamo chiederci personalmente: quale è l’ultimo libro importante di teologia che ho letto? Sto meditando la Parola di Dio in maniera metodica e perseverante? Mi aggiorno grazie alla lettura di qualche rivista che mi aiuti a capire questo nostro tempo così mutevole? 

Lo studio, quello vero, umile e serio, non ha mai fatto male a nessuno; anzi, in una situazione nella quale il numero dei sacerdoti è in calo è ancora più importante la qualità della loro preparazione umana e spirituale, che ha costantemente bisogno di nutrirsi di buona teologia e di autentica spiritualità.

Gesù, più di una volta si rivolge ai suoi ascoltatori dicendo: “Non avete mai letto nelle Scritture?” citando poi frasi dell’Antico Testamento che egli illumina di nuova luce, come fa con i due discepoli di Emmaus  con i quali “cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui”(Lc 24,27). I due discepoli avevano familiarità con i testi della Legge di Mosè, dei Profeti e dei Salmi, ma il cuore loro, fino a quel momento, non si era scaldato al fuoco della Parola: “Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?”(Lc 24,32). 

L’apostolo Paolo, da parte sua, rivolgendosi ai Corinzi li ammoniva dicendo: “La mia parola e la mia predicazione non si basarono su argomenti persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza, perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio”(1Cor 2,4-5). E questo perché, dice sempre Paolo ai Corinzi: “la conoscenza riempie di orgoglio, mentre l’amore edifica”(1Cor 8,1). Ed è proprio questo amore che permette di fare esperienza profonda di “quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo” e che “Dio ha preparato per coloro che lo amano” (1Cor 2,9).

Una quinta riflessione è su quello che il prete tace.

Per amore di Sion non tacerò, per amore di Gerusalemme non mi concederò riposo, finché non sorga come aurora la sua giustizia e la sua salvezza non risplenda come lampada. (…) Sulle tue mura, Gerusalemme, ho posto sentinelle; per tutto il giorno e tutta la notte non taceranno mai. Voi che risvegliate il ricordo del Signore, non concedetevi riposo né a lui date riposo, finché non abbia ristabilito Gerusalemme e ne abbia fatto oggetto di lode sulla terra”(Is 62,1.6-7). Al profeta Isaia fa eco Geremia: “Le mie viscere, le mie viscere! Sono straziato. Mi scoppia il cuore in petto, mi batte forte; non riesco più a tacere, perché ho udito il suono del corno, il grido di guerra”(4,19).

 L’immagine della sentinella è quanto mai appropriata e pertinente. Sentinella è chi, durante il suo turno di veglia, non si appisola e non dorme, bensì scruta l’orizzonte per cogliere qualunque segnale che possa indicare una emergenza. Sentinelle siamo chiamati ad esserlo anche noi, nel doppio significato espresso dal profeta Isaia: Dio ci ha posti come sentinelle nella sua Chiesa; il nostro compito è non tacere ciò che noi riusciamo a scrutare nel panorama che ci circonda, e nello stesso tempo siamo chiamati a “risvegliare il ricordo del Signore” nella nostra gente, senza mai perderci d’animo, senza “concederci riposo” e senza dare riposo nemmeno al Signore perché intervenga a favore del suo popolo.

Si tratta della vigilanza necessaria per capire che cosa sta succedendo e per non limitarci ai lamenti sterili che non servono a nulla; premessa necessaria per “risvegliare” continuamente in noi e nella nostra gente il ricordo del Signore. Un ricordo che può essere fatto anche solo di tradizioni religiose, ma che spesso è anche nostalgia interiore di qualcosa, o meglio di un Qualcuno di cui si percepisce confusamente la mancanza e di cui non si possiedono più gli elementi indispensabili per chiamarlo per nome. 

Credo che avvenga più spesso di quanto non si pensi, soprattutto nei momenti più complicati, in cui ci ritroviamo privi di quel “Nome” che è poi “Presenza” con cui intessere un dialogo interiore con Colui che non abbandona mai nessuno e che è sempre alla nostra ricerca anche se noi non ce ne accorgiamo. E’ pure estremamente significativa l’altra espressione usata da Isaia quando invita a non dare riposo nemmeno al Signore. Si tratta della preghiera incessante alla quale siamo chiamati. A questo proposito c’è davvero da domandarci se tutto quello che facciamo sul piano pastorale è preparato, realizzato e seguito dalla preghiera. Se manca questa, anche i gesti più eclatanti diventano muti e incapaci di parlare al cuore delle persone.

Una attenzione particolare credo che dobbiamo porla a ciò che oggi rischiamo di far passare sotto silenzio, accodandoci ad una pressione culturale che non risparmia nessuno. Mi spiego meglio. Ci sono temi e argomenti di vita che sempre di più  vengono “silenziati” o perché troppo scomodi, o apparentemente fuori moda. Se in un tempo forse si parlava troppo di peccato, oggi non se ne parla più o si parla solo di alcune specie di peccati. Se in tempi passati si chiedeva la confessione prima di fare la comunione, oggi si rischia di cancellarla dalla pratica della vita cristiana; se in passato si accentuava il senso del giudizio divino sulla vita di ognuno, oggi tutto viene racchiuso in una “misericordia” fasulla per la quale alla fine va bene tutto e il contrario di tutto. Queste forme di estremismo sono di fatto un “tacere” la pienezza della verità alla quale lo Spirito di Dio vuole condurci, nel momento stesso in cui ci accorgiamo sempre di più che gli sconti di fine stagione non sono ciò che cerca chi ha fatto o sta facendo una vera esperienza di incontro di fede con il Signore.

A tutto questo non possiamo non aggiungere che per noi, il rischio è di lasciarci ingabbiare da questo stesso stile di ridurre tutto al minimo, per cui la nostra stessa vita di preti, invece di tendere al massimo, alla pienezza della santità, finisce per “giacere” – come dice S. Gregorio Magno, nel minimo di una vita opaca e alla fine insignificante perché priva di orizzonti aperti e spalancati sull’infinito dell’amore. Non dimentichiamo poi che quando alcuni farisei tra la folla chiedono a Gesù di rimproverare i suoi discepoli nel momento del suo ingresso trionfale in Gerusalemme, Gesù rispose “Io vi dico che, se questi taceranno, grideranno le pietre”(Lc 19,40). Non aspettiamo che di fronte ai nostri silenzi, gridino le pietre!

Una sesta riflessione è su quello che il prete vuole.

E’ sempre per me una occasione di grande emozione e di forte esame di coscienza quando nelle ordinazioni sacre pongo al candidato quella serie di domande che anche a ciascuno di noi sono state poste dal nostro Vescovo quando ci ha ordinati diaconi, presbiteri, e nel mio caso anche vescovo.  Ogni domanda è introdotta dal verbo volere: “Vuoi essere consacrato al ministero nella Chiesa … Vuoi esercitare il ministero … Vuoi custodire in una coscienza pura il mistero della fede … Vuoi custodire per sempre il celibato come segno della tua totale dedizione a Cristo (al momento del diaconato) … Vuoi custodire e alimentare la tua vita con la preghiera … Vuoi conformare a Cristo tutta la tua vita ?”

 A ciascuna delle domande abbiamo risposto : “Lo voglio!” E all’ultima domanda abbiamo risposto: “Sì, con l’aiuto di Dio, lo voglio!”. Alle stesse domande rispondiamo ogni anno, come presbiterio, nella celebrazione della Messa Crismale, così come ogni anno , nella Veglia Pasquale, rispondiamo con tutta la nostra gente con la parola “Credo” alla rinnovazione della professione di fede. Non penso che sia offensivo per nessuno se aggiungo: ma lo vogliamo davvero, sempre, ogni giorno, con rinnovato impegno ed entusiasmo?

Sono convinto che ognuno di noi, vuole seguire Gesù, vuole conformarsi a Lui, vuole fare propria la volontà del Padre celeste così che sia davvero nostro cibo, come lo fu per Gesù; ma non mancano le tentazioni di fare poi diversamente, di scoraggiarci di fronte alle difficoltà, forse presumendo delle nostre forze e dimenticando che tutti quanti portiamo in noi stessi la fragilità del peccato di origine, e quindi la necessità di ricorrere sempre di nuovo al perdono di Dio e alla forza della sua grazia. 

Anche l’apostolo Paolo viveva in se stesso la fatica della coerenza e l’esperienza della sua fragilità quando afferma: “non riesco a capire ciò che faccio: infatti io faccio quello che non voglio, ma quello che detesto (…) io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio (…) nel mio intimo acconsento alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che combatte contro la legge della mia ragione e mi rende schiavo delle legge del peccato che è nelle mie membra. Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte?”(Rom 7,15.19.22-24). Parole che anche noi possiamo sottoscrivere, ma che non si chiudono alla speranza e alla fiducia, infatti l’apostolo conclude: “Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore!”(7,25).

Il nostro volere non è solo espressione del nostro desiderio di bene e nemmeno della presunzione di essere capaci di vincere il male con le nostre forze, bensì ha il suo fondamento nella vittoria del Signore Gesù sul male e sulla morte; una vittoria della quale anche noi siamo partecipi in virtù della nostra incorporazione battesimale a Cristo, corroborata dal dono dello Spirito Santo nella Cresima, alimentata dall’Eucaristia che celebriamo e riceviamo ogni giorno, dal sacramento della Penitenza per il perdono delle nostre colpe e dall’esercizio del sacramento dell’Ordine sacro che ci ha conformati a Cristo Servo e Sposo della sua Chiesa. Questa è la garanzia soprannaturale che non viene mai meno e che ci permette di ripetere il nostro “Lo Voglio!” senza paura di infingimenti o di presunzione.

Ultima riflessione è su quello che il prete vive.

L’immagine evangelica di riferimento che più di ogni altra ci può dare il senso della vita che siamo chiamati a vivere è quella che l’evangelista Giovani ci presenta al capitolo quindicesimo della vite e dei tralci con l’uso ripetuto del verbo rimanere: “Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete fare nulla”(Gv 15,4-5). 

Proprio grazie a questa pienezza di comunione che il Signore assicura ad ogni cristiano e a maggior ragione ad un prete, ci è possibile far crescere e rendere fecondo quel flusso di grazia che dal Signore giunge a ciascuno, per non accontentarci mai di vivacchiare o di “sopravvivere”, ma di vivere in pienezza. E’ ovvio che questo flusso di grazia si colloca a livello soprannaturale, ma non è neppure ininfluente anche a livello della nostra umanità, la quale non può contentarsi solo delle cose che facciamo, ma proprio perché ciò che facciamo è talmente compenetrato con la realtà dello Spirito, se non abbiamo piena consapevolezza del suo immenso valore, secondo parametri puramente materiali rischiamo di sentirci frustrati se non addirittura inutili, nel nostro operare quotidiano.

L’apostolo Paolo, scrivendo ai Galati dice: “Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me”(Gal 2,19-20). Sottolineo l’espressione di Paolo: “questa vita che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio”. Non si tratta di una vita fittizia o idealizzata: è la realtà profonda dell’esperienza cristiana e ancora di più dell’esperienza sacerdotale, dove tutto deve essere letto nella prospettiva dello Spirito di Dio, che è presente nel tempo e nella storia e che dà senso e valore eterno a tutto ciò che compiamo ogni giorno, in modo speciale a ciò che è espressione della nostra azione ministeriale.

Detto in altre parole, credo che tutti noi abbiamo esperienza di che cosa significhi vivere una autentica paternità spirituale nei confronti di coloro che accompagniamo nel cammino della fede; che cosa vuol dire trasmettere ad altri la bellezza della nostra relazione con Cristo; sperimentare la fecondità della grazia che riesce a penetrare nel cuore delle persone, superando le barriere di una umanità spesso gravata da fardelli insopportabili; avere la gioia di camminare “in famiglia”, cioè con la propria comunità di appartenenza sulle vie del Vangelo e della santità.

Insieme, tutto diventa più facile e soprattutto insieme si diventa segni efficaci di salvezza per il mondo.

Chiediamo al Signore nella preghiera di donarci il suo Spirito perché ci illumini interiormente e con la sua forza ci aiuti a diventare sempre di più “ciò che siamo”, cioè “sale della terra e luce del mondo”, consapevoli che il sapore ce lo da il Signore e la luce che riflettiamo viene sempre e soltanto da Lui.