(Gv 4,5-42)
25 febbraio 2021 – in videoconferenza
Il percorso che stiamo compiendo nei ritiri spirituali di quest’anno ci conduce a riflettere su alcune caratteristiche fondamentali del nostro ministero presbiterale. Dopo aver meditato sul nostro “accogliere” e il nostro “accompagnare” coloro che il Signore ci ha affidato nella sua Chiesa, questa volta vogliamo approfondire il tema del “discernere”, facendoci illuminare dal testo evangelico dell’incontro di Gesù con la donna samaritana al pozzo di Giacobbe; un testo che conosciamo bene, ma che questa volta vorremmo leggere e approfondire proprio nella prospettiva del discernimento. Seguiremo questo testo soprattutto immedesimandoci nel dialogo tra Gesù e questa donna.
Giovanni ci descrive un Gesù “affaticato per il viaggio” che “sedeva presso il pozzo” di Giacobbe. Siamo sul mezzogiorno. E’ caldo. Gesù era rimasto solo perché i discepoli erano andati in città per procurarsi da mangiare. La scena di un Gesù stanco per il viaggio e assetato nel caldo del mezzogiorno ci è estremamente connaturale: si tratta di un Gesù che condivide le nostre stanchezze e i nostri desideri spesso inappagati che spesso affiorano dal profondo della nostra vita e ci inquietano, a volte quasi togliendoci il respiro e inducendo pensieri e atteggiamenti di scoraggiamento.
“Giunse una donna samaritana ad attingere acqua”. Sulla scena compaiono due persone che sono totalmente estranee l’una all’altra. Non si conoscono. Quante volte accade che ci si trovi ad essere compresenti nello stesso luogo con altre persone e tutto si risolva, se va bene, con un “buon giorno” o una “buona sera” o un cenno del capo; molto più spesso accade che ciascuno rimane in silenzio, magari spippolando con il proprio cellulare o impegnandosi in telefonate interminabili, disinteressandosi pure se altri possono ascoltare le proprie conversazioni telefoniche. Il silenzio, il più delle volte caratterizza i nostri incontri imprevisti.
Gesù dice alla donna: “Dammi da bere!”. Gesù sta esprimendo un bisogno e la donna possiede una brocca con la quale era venuta ad attingere acqua. Non mi pare che la richiesta di Gesù sia solo un modo per “attaccare bottone”. Gesù si pone nella condizione di chi ha bisogno, in questo caso, della donna che è venuta ad attingere acqua. Non solo. La richiesta di Gesù supera ogni barriera, prima fra tutte il fatto che un uomo, da solo, si rivolga ad una donna del tutto sconosciuta. Di questa cosa si stupiranno anche i discepoli che tornando dalla città “si meravigliarono che parlasse con una donna”(4,27). Oltre tutto si trattava di una donna samaritana e dal colloquio tra i due si può ben vedere quanto pesassero i condizionamenti sociali del tempo dato che “i giudei non avevano rapporti con i samaritani”.
In effetti, anche la donna si meraviglia della richiesta di Gesù: “Come mai tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?”. Ci è facile pensare a quanti siano anche per noi oggi, i condizionamenti che ci allontanano dalle persone o che allontanano le persone da noi! Distanze alle quali finiamo per fare l’abitudine e di cui forse troviamo anche giustificazioni. Come quando anche noi diciamo: io suono le campane, faccio sapere a che ora c’è la Messa, chi vuol venire venga! Io mando l’avviso che c’è il catechismo: chi ne vuole approfittare per i propri figlioli sa come fare! Magari poi ci lamentiamo dello sfilacciamento sempre più evidente nella pratica religiosa e della insignificanza sociale della presenza e dell’azione ecclesiale, ma, intanto, spesso, i luoghi della vita ci rimangono estranei, e a volte del tutto sconosciuti; le tendenze sociali in atto ci sfuggono e finiamo per accontentarci della piccola cerchia di fedelissimi che diventa sempre più esigua, per cui alla fine ci troviamo sempre più soli.
Gesù chiede alla donna: “Dammi da bere!”. Noi che cosa chiediamo alla nostra gente? Abbiamo la consapevolezza che noi stessi abbiamo bisogno del nostro popolo, o pensiamo che il bisogno debba essere solo da parte della gente nei nostri confronti? Se non stiamo attenti, il rischio sempre più evidente è che la Chiesa e noi stessi finiamo per non avere più rapporti veri con la vita delle persone.
Alla domanda meravigliata del perché Gesù chieda da bere ad una donna samaritana, la risposta di Gesù non si ferma alla periferia delle cose, bensì punta al centro del mistero della sua persona: “Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: dammi da bere! Tu avresti chiesto a lui ed egli ti avrebbe dato acqua viva”. E’ interessante notare come il colloquio si stia dipanando su due piani diversi: Gesù non sta parlando dell’acqua del pozzo, bensì di un’altra acqua che ha la capacità di dissetare la donna nelle sue aspettative più profonde. La donna invece sta pensando ancora all’acqua del pozzo: “Signore, tu non hai un secchio e il pozzo è profondo: da dove tu prendi dunque quest’acqua viva?” E, non solo: la donna introduce un parallelo tra colui che ha davanti a sé e il “padre Giacobbe che ci diede il pozzo e ne bevve lui con i suoi figli e il suo bestiame”. “Sei tu forse più grande di lui?” Quasi dicesse: chi ti credi di essere?
In realtà oltre le parole che l’Evangelista ci riporta qualcosa è già scattato nel cuore della donna che non era certo timida, ma che era abituata ad avere una molteplicità di relazioni. In lei si muovono sentimenti diversi, sensazioni contraddittorie; affiora cioè quel coacervo interiore che l’aveva portata ai margini della vita sociale, se essa andava ad attingere acqua al pozzo non quando ci andavano tutte le altre donne, ma sul mezzogiorno, cioè quando, sicuramente, ella sapeva che al pozzo non avrebbe incontrato nessuno.
Gesù prosegue il suo dialogo sul piano alto sul quale l’aveva impostato da subito: “Chiunque beve di quest’acqua, avrà di nuovo sete; ma chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno. Anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna.” Gesù con grande evidenza sta parlando d’altro. Si tratta dell’acqua dello Spirito di cui parlerà esplicitamente nel Tempio a Gerusalemme , quando “ritto, in piedi, gridò: “Se qualcuno ha sete, venga a me, e beva chi crede in me. Come dice la Scrittura: Dal suo grembo sgorgheranno fiumi di acqua viva. Questo egli disse dello Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui: infatti non vi era ancora lo Spirito, perché Gesù non era ancora stato glorificato”(Gv 7,37-39).
La sete di cui Gesù parla è sete di senso, di significato, di speranza, di certezza in cose che non passano e che rimangono perché radicate nel mistero d’amore di Dio. Si tratta di un bisogno interiore che è presente in ogni persona, anche se spesso non si è in grado di coglierne tutta la valenza e non sappiamo chiamarlo con il suo nome. Si tratta di una sete che di fatto denuncia quella patologia profonda che è il male, il peccato, presente nella vita di ogni persona. Un po’ come una specie di “diabete” spirituale che provoca una sete insaziabile, la quale quanto più viene “dissetata” in maniera non appropriata, tanto più cresce, rendendo ancora più difficile il riconoscimento di ciò che in realtà si sta vivendo e quale sia il bisogno vero che ci sta interpellando nel profondo di noi stessi.
La donna ha sete; ed esprime un bisogno del suo essere; un bisogno che non ha ancora un nome, ma che il Signore la aiuterà a riconoscere: “Signore, dammi quest’acqua, perché io non abbia più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua”. Vorrei sentirmi dissetata; vorrei non dover più cercare ciò che ancora non so riconoscere. Aiutami tu! E’ una richiesta di aiuto che attraversa altri incontri con Gesù, come accade a Cafarnao dopo la moltiplicazione dei pani, quando Gesù afferma che “il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo. Allora gli dissero: Signore, dacci sempre questo pane!”(Gv 6, 33-34). Le persone che incontrano Gesù intuiscono nelle sue parole un mistero che è a portata di mano, ma che ancora non è compreso nella sua più vera realtà; e anche se ancora tutto rimane avvolto da un velo, nello stesso tempo c’è come una attrazione interiore che porta a chiedere: dammi di quest’acqua; dammi di questo pane!
Questo anelito interiore, se è punto di partenza, non è però sufficiente perché la persona possa fare quell’atto di fiducia e di affidamento che noi chiamiamo fede. E ciò non avviene finché si rimane sul piano delle idee e non si passa alla realtà della vita personale di ciascuno.
E’ per questo che Gesù si rivolge alla donna samaritana, aiutandola a mettere a nudo la sua vita. Gesù che conosce il cuore di ciascuno e che non ha bisogno che altri gliene parlino, affronta la situazione di disagio e di fragilità che la donna sta vivendo da lungo tempo nelle sue molteplici esperienze di relazioni coniugali e familiari. “Va’ a chiamare tuo marito!”, le dice Gesù “e ritorna qui!”. La risposta della donna è: “Io non ho marito!” Ed era vero. E Gesù ricorda alla donna il suo vissuto in maniera diretta e chiara: “Hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero!”.
“In questo hai detto il vero!”. Un autentico discernimento non può che partire dal coraggio con il quale si chiamano le cose con il loro vero nome. Occorre il coraggio della verità. Coraggio che oggi rischia di affievolirsi sempre di più per una sempre più invasiva “dittatura” delle più diverse opinioni, delle più ampie interpretazioni e della affermazione indiscriminata di un individualismo esasperato, per cui tutto è possibile insieme al suo contrario, con giustificazioni che non giustificano assolutamente nulla.
Dobbiamo ricordare che cercare la verità non significa dimenticare la carità. Verità e carità debbono sempre compenetrarsi reciprocamente, perché non esiste una verità autentica che non sia permeata dalla carità, così come non esiste una carità vera che non sia animata dalla verità; infatti “la carità si rallegra della verità”(1 Cor 13,6) e solo “agendo secondo verità nella carità, cerchiamo di crescere in ogni cosa tendendo a lui, che è il capo, Cristo”(Ef 4,15). Qualche volta la verità stessa viene usata quasi fosse una specie di grimaldello per forzare ciò che non riusciamo ad attivare con il convincimento; una verità gestita in questo modo non avvicina nessuno; anzi allontana reciprocamente perché c’è sempre bisogno di quella relazione ricca di umanità e di calore fraterno che è capace di entrare nel cuore delle persone.
Evidentemente le parole di Gesù che svelano alla donna il guazzabuglio della sua vita, la colpiscono nel profondo: “Signore, vedo che tu sei un profeta!” . Dirà poi ai suoi compaesani: “Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto!”. Però non sono ancora cadute tutte le resistenze che la donna portava dentro di sé. Infatti, pur ammettendo che quell’uomo misterioso era in grado di leggere nella sua vita, ancora non si arrende, o comunque non è ancora in grado di rivedere seriamente se stessa e il suo vissuto. Ed entra così in una questione che appassionava e contrapponeva giudei e samaritani, e cioè dove e come adorare Dio: “I nostri padri hanno adorato Dio su questo monte; voi invece dite che è a Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare”.
Apparentemente si potrebbe pensare che le parole della donna siano dette per mettere il “pallone in calcio d’angolo” e prendere tempo di fronte alla prospettiva di una probabile “sconfitta” dialettica. In realtà permettono a Gesù di entrare nel merito di che cosa sia una autentica vita di fede. In altre parole: non basta avere regole morali da seguire; non basta conoscere quali sono i comandamenti di Dio per essere in grado di cambiare vita; c’è prima di tutto bisogno di dare motivazioni e basi solidi alla propria relazione con Dio, al nostro “adorare” il Signore, che non può rimanere o risolversi solo nell’adempimento di alcune regole o di forme cultuali esterne.
Si tratta di un tema che se valeva ai tempi di Gesù – e sappiamo quanto Gesù abbia detto e fatto per richiamare ad un rapporto autentico di fede con il Padre celeste – è fondamentale anche per il nostro tempo e per la nostra vita quotidiana, in un tempo in cui si afferma sempre di più una “religione fai da te”. Il rapporto con Dio non può materializzarsi solo in relazione ad alcuni luoghi particolari; e non è neppure una specie di impresa puramente umana per cui sono io che “conquisto Dio” e lo “costringo” a rapportarsi con me. C’è bisogno di una conoscenza che sia frutto di umile accoglienza del dono che Dio vuole fare e fa continuamente di se stesso all’uomo; come c’è bisogno di lasciarsi trasportare dalla grazia di Dio sul piano dello Spirito; cioè sul piano stesso di Dio, evitando così di ridurre Dio alle dimensioni limitate dell’uomo, in quelle forme banalmente ridotte ai nostri limiti creaturali, che sono poi, sia pure con altre vesti, una replica dell’antica idolatria.
Ecco il senso delle parole che Gesù dice alla donna, rispondendo alla sua domanda: “Credimi, donna, viene l’ora in cui né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre (…) viene l’ora, ed è questa, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; così infatti il Padre vuole che siano quelli che l’adorano. Dio è Spirito, e quelli che lo adorano devono adorare in spirito e verità”.
“Adorare il Padre in spirito e verità”. Si tratta del punto di arrivo nel cammino di discernimento cristiano. Punto di arrivo per noi e per i nostri fedeli in un itinerario che non è possibile fare individualisticamente. Si tratta di un percorso sempre estremamente personale che ci deve coinvolgere in tutte le nostre potenzialità – “amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente”(Lc 10,27) – ma che non possiamo e non dobbiamo presumere di poter compiere in solitudine: “amerai il tuo prossimo come te stesso” (Lc 10,27). E’ ciò che Gesù evoca quando dice che “la salvezza viene dai giudei”, cioè attraverso la storia di salvezza del popolo che Dio ha scelto, separandolo dagli altri popoli perché fosse il suo popolo ed egli, il Signore, fosse il loro Dio.
Non sempre la nostra gente, e forse anche noi stessi, ci rendiamo conto di questa necessaria interazione comunitaria per una seria vita di relazione con Dio. Se nel passato, spesso, la formazione spirituale delle persone era sbilanciata sul rapporto intimo e profondo con il Signore, ma non scindeva mai questo rapporto da una necessaria interazione con la comunità cristiana, oggi l’individualismo imperante se da una parte ha esasperato l’ individualità di ciascuno, volendo salvaguardare la dignità insopprimibile di ogni persona, dall’altra parte ha portato non solo a sganciare la persona dalle necessarie relazioni comunitarie sia per quanto riguarda la vita sociale che la vita di fede, ma addirittura ha reso talmente abnorme il senso della autonomia individuale, da sganciare la persona dalla necessaria dipendenza che essa ha nei confronti di Dio stesso. Da qui la “religione fai da te” insieme a un “dio” con la “d” minuscola che alla fine rischia di essere percepito come un prodotto dei bisogni di sicurezza delle singole persone.
Per questo, proprio noi preti che siamo chiamati ad accompagnare i nostri fratelli e sorelle sulla via del discernimento di fede, occorre che per primi facciamo centro su cosa significhi per noi “adorare Dio in spirito e verità” per essere davvero capaci di mostrare ad essi quale sia oggi, per tutti, la strada da seguire per un autentico incontro di salvezza con il Signore.
Alle parole di Gesù, la donna samaritana che dimostra di conoscere le antiche Scritture di Israele, dice: “So che deve venire il Messia, chiamato Cristo: quando egli verrà, ci annuncerà ogni cosa”. A questo punto, lì, al pozzo di Giacobbe, sotto il sole di mezzogiorno, Gesù si rivela in maniera piena e impensabile: “Sono io che parlo con te”.
Non è questa l’unica volta in cui Gesù si rivela come Messia e Cristo, nella semplicità dell’incontro personale con qualcuno. Basta ricordare il dialogo tra Gesù e il cieco nato guarito: “Tu credi nel Figlio dell’uomo? Egli rispose: E chi è, Signore, perché io creda in lui? Gli disse Gesù: Lo hai visto: è colui che parla con te! Ed egli disse: Credo, Signore”(Gv 9,35-38). In questo episodio gli interlocutori di Gesù sono molti, ma mentre gli occhi interiori del cieco nato guarito si aprono, quelli di coloro che pur sono spettatori del miracolo compiuto da Gesù, rimangono chiusi, tanto che lo stesso Gesù, alla fine dirà: “E’ per un giudizio che io sono venuto in questo mondo, perché coloro che non vedono vedano e quelli che vedono, diventino ciechi”(Gv 9, 39).
Dio viene sempre per primo incontro all’uomo e si rivela come e quando Lui vuole, se il cuore dell’uomo si apre alla disponibilità nella fede. Il libro della Sapienza si apre con queste parole: “Amate la giustizia, voi giudici della terra, pensate al Signore con bontà d’animo e cercatelo con cuore semplice. Egli infatti si fa trovare da quelli che non lo mettono alla prova, e si manifesta a quelli che non diffidano di lui”(1,1-2). Per un percorso di vero discernimento occorre dunque, da parte nostra, un cuore semplice, bontà d’animo, la disponibilità alla fiducia e l’umiltà e, potremmo aggiungere, affidandoci a Gesù nella comunione della sua Chiesa, lasciare che Egli agisca in noi.
A questo punto, la donna samaritana, lasciò la sua anfora, lì al pozzo di Giacobbe e andò in città per raccontare a tutti quello che le era accaduto, rivolgendo a tutti un invito: “Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto (..) uscirono dalla città e andavano da lui”.
Nel frattempo, ci racconta Giovanni, anche i discepoli erano ritornati con le provviste per il pranzo e fra le parole pronunciate da Gesù nel silenzio dei discepoli, c’è una espressione assai misteriosa che fa pensare: “Alzate i vostri occhi e guardate i campi che già biondeggiano (biancheggiano) per la mietitura”. Di che cosa si tratta? C’è chi in questa espressione coglie la gioia del Signore per questa venuta impensata dei samaritani di quella città incontro a Gesù: le messi sarebbero loro, i quali apparentemente lontani dalla genuinità della fede ebraica, in realtà sono disponibili all’incontro di fede con il Messia.
L’azione salvifica di Dio va ben oltre le nostre attese e ci sorprende sempre per la sua fecondità imprevedibile; non di rado là dove ci attenderemmo risultati, questi non ci sono, e invece dove stentiamo a seminare il seme della Parola di Dio questa attecchisce e fruttifica in abbondanza. Ciò ci ammonisce a non restringere l’azione della grazia ai nostri parametri umani a volte condizionati dalle nostre ambizioni o dai nostri schemi: Dio va sempre oltre il nostro piccolo orizzonte e ci chiede pure di andare oltre l’usuale a cui siamo abituati, spingendoci al largo e soprattutto in profondità, anche là dove pensiamo, sbagliando, che non ci siano capacità di risposta. Noi siamo solo strumenti, importanti, ma sempre e soltanto strumenti: “servi inutili”, perché il Signore può compiere le sue grandi opere anche con altri e non solo con noi.
“Molti samaritani di quella città credettero in lui per la parola della donna, che testimoniava: Mi ha detto tutto quello che ho fatto”. Ma, aggiunge l’evangelista: “Molti di più credettero per la parola di lui (Gesù) e alla donna dicevano: Non è più per i tuoi discorsi che noi crediamo, ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il Salvatore del mondo”.
L’azione della grazia ha una forza di penetrazione impensabile, perché è sempre diffusiva di sé. Come il male è contagioso, ancora di più la grazia di Dio è capace di oltrepassare ogni confine per passare da cuore a cuore e giungere anche là dove noi penseremmo non potesse mai arrivare. Si tratta della forza che scaturisce dalla Parola di Dio accolta nel cuore e nella vita di una persona, che si allarga oltre il singolo e coinvolge tutti coloro che in qualche modo sono alla ricerca di una pienezza di vita. In questo ci si accorge di quanto sia importante la testimonianza e il servizio di accompagnamento. In altre parole c’è sempre bisogno di una mediazione che parte da un rapporto interpersonale e che poi si allarga sempre di più per diventare testimonianza ed accompagnamento comunitario.
Tutto questo, oggi, interpella fortemente noi sacerdoti nel nostro rapporto con le persone che incontriamo, e in modo particolare come pastori e guide responsabili della comunità cristiana. Infatti c’è bisogno di una azione che si compia nel “tu a tu” del rapporto con i singoli, ma che contemporaneamente si allarghi alla comprensione di quel “noi” senza il quale non si potrà fare esperienza completa di ciò che significa essere Chiesa. Soprattutto non potrebbe essere offerto a chi inizia una relazione più profonda e più vera con il Signore quel supporto indispensabile che solo una comunità cristiana che vive la relazione dell’amore fraterno può offrire come testimonianza e terreno fertile in cui il seme della grazia che viene dalla Parola di Dio e dai Sacramenti celebrati nella fede, possa trovare l’ambiente favorevole perché fruttifichi fino al cento per uno.
Non possiamo dunque evitare di domandarci se noi stessi e le nostre comunità stanno offrendo questa disponibilità ai tanti che ci guardano, ma rimangono fuori o sulla soglia della vita cristiana, perché privi di quell’aiuto fraterno di cui avrebbero bisogno. Che cosa significa per me esercitare il ministero del discernimento? Come lo sto esercitando per la mia vita di fede e per la vita di fede di tanti fratelli e sorelle che incontro ogni giorno? Che cosa fare per esercitare questo discernimento anche a livello della comunità cristiana di cui sono pastore e guida?
Potrà aiutarci la lettura e la meditazione orante di quanto papa Francesco ha scritto nella Esortazione Apostolica “Gaudete et exsultate” ai nn. 124, 125, 169, 171, 174.